Gran parte dell’insanguinata storia dell’umanità è fatta di migrazioni di massa che spesso e volentieri sono diventate vere e proprie invasioni coloniali ai danni delle popolazioni autoctone. Ma nonostante quello che il politicamente corretto sostiene, ogni «nuova era» aperta da una migrazione di massa ha come suo rovescio un teschio nella teca di un museo. Con un cartellino con su scritto: «estinto»…
Pochi celebrano il loro essere emigranti come gli statunitensi. Riuniti attorno alla tavola, il Giorno del Ringraziamento festeggiano la grazia ottenuta dal Signore per averli fatti arrivare oltreatlantico, verso la libertà e la prosperità. Il primo Giorno del Ringraziamento viene tradizionalmente fatto risalire all’autunno 1621. Al loro arrivo in America, i Padri Pellegrini incontrarono un ambiente inizialmente ostile e le sementi che si erano portati dall’Inghilterra, inadatte al clima del Massachusetts, non avevano prodotto raccolti. Così il primo inverno nel Nuovo Mondo, quello fra il 1620 e il 1621, falcidiò la fragile colonia. Poi gli indiani Wampanoag che vivevano in quelle terre insegnarono loro a coltivare il granturco e ad allevare i tacchini. Alla fine del 1621 le dispense erano finalmente piene tavole e le imbandite. I Padri Pellegrini pensarono giustamente di condividere il bendiddio che quelle terre avevano prodotto con gli indiani che avevano insegnato loro come metterle a frutto: alla cinquantina di coloni europei sopravvissuti si unirono circa novanta indiani. Il 29 giugno 1676, cinquantacinque anni dopo, il governatore della contea di Charlestown, in Massachusetts, proclamava un giorno di ringraziamento per la buona sorte di cui godeva la comunità. Ma anche per celebrare la vittoria contro gli «indigeni pagani».
Nel giro insomma di mezzo secolo quegli stessi nativi che erano stati la salvezza dei primi, affamati, coloni inglesi erano diventati nemici da sconfiggere. Come poi sia finita per gli indiani d’America è storia nota: «avete preso le nostre terre e noi ora siamo costretti a vivere in roulotte. Voi vestite maglioni di cachemire e bevete cocktail, noi vendiamo braccialetti a bordo strada», dice fuori copione Mercoledì Addams (Christina Ricci) nei panni di Pocahontas rovinando una stucchevole recita scolastica nel film «La Famiglia Addams 2». È anche interessante notare che l’indiano Squanto, un ex schiavo catturato dagli inglesi e divenuto la principale guida dei Padri Pellegrini nel Massachusetts era l’ultimo dei Patuxett, una tribù che viveva nei territori dove sorge oggi Plymouth, sulla baia di Capo Cod, e che venne sterminata totalmente da una qualche epidemia. Arrivata con le navi degli europei…
Gran parte dell’insanguinata storia dell’umanità è una storia di migrazioni. Eppure il politicamente corretto impone che si ignori che quasi ogni «giorno del ringraziamento» ha come suo rovescio un teschio nella teca di un museo con un cartellino con su scritto «estinto». Il più famoso di questi teschi è quello dell’uomo di Neanderthal. Primigenio abitante dell’Europa, a partire da circa centomila anni fa questo nostro affine dalla pelle bianca e i capelli rossi ha visto il suo habitat progressivamente invaso dall’uomo Sapiens. Impossibile dire come la nostra specie abbia scalzato i neandertaliani, ma è certo che circa 40 mila anni fa questi ultimi erano pressoché estinti. Una parte del loro DNA (dall’1,8 al 2,6%) continua a vivere nel sangue delle razze bianca e gialla secondo una ricerca di Kay Prüfer, Svante Pääbo pubblicata dalla rivista «Science», mentre per uno studio di Michael Dannemann e Janet Kelso pubblicato due mesi prima sul «The American Journal of Human Genetics» il contributo genetico neandertaliano sarebbe alla base della forte varietà fenotipica che caratterizza i caucasoidi: dai tratti delle popolazioni nordiche estremamente chiare, bionde e con gli occhi azzurri ai coloriti più scuri di mediterranei e mediorientali.
Se dunque i maschi europei moderni possono avere l’imbarazzo della scelta fra bionde, more e rosse lo dobbiamo a quei primitivi cugini che i nostri antenati scalzarono dai loro territori sterminandoli e assorbendone i resti nelle loro tribù. Una magra consolazione per l’originario padrone del teschio di Saccopastore conservato nel museo di Antropologia della Sapienza di Roma, la cui specie è oggi estinta. Le tesi attorno all’estinzione dei Neandertaliani ruotano tutte attorno ai «danni collaterali» che le grandi migrazioni di masse umane portano con sé: genocidio puro e semplice; diffusione di epidemie; assorbimento demografico; combinazione delle tre cose in proporzioni variabili. Raramente nella storia le migrazioni umane hanno avuto esiti differenti, soprattutto quando lo squilibrio numerico è tale che gli indigeni si trovano in minoranza nei confronti degli allogeni. Anche quando il risultato storico è stata la fusione di due popoli prima separati, questa è arrivata dopo secoli di lotte, oppressione del vincitore sul vinto e sangue. Si pensi soltanto alla storia dell’Inghilterra medievale: dapprima i Britanni scalzati da Angli, Sassoni e Iuti e costretti a emigrare in Europa o a ritirarsi in Galles e Cornovaglia; successivamente Angli, Sassoni e Iuti conquistati dai Vichinghi con intere regioni depopolate dalle incursioni e colonizzate dai norreni (Anglia nord-orientale, Yorkshire orientale e Lakeland); infine l’arrivo dei Normanni dalla Francia e i due secoli di oppressione di costoro sui «Sassoni», un tema al centro del celebre romanzo ottocentesco «Ivanhoe» di Walter Scott. Insomma, otto secoli di invasioni, torbidi, massacri, sopraffazioni prima che l’Inghilterra trovasse una sua nuova unità etno-culturale passando così da terra di immigrazione a terra di emigrazione nei successivi sei secoli, ai danni di gallesi, irlandesi, scozzesi, poi nativi americani e aborigeni australiani…
È storiograficamente corretto affermare che l’uomo moderno discende tutto da stirpi di «migranti». La condizione dei nostri più primitivi antenati era quella del nomade, costretto a spostarsi sui territori all’inseguimento delle prede o scalzato dai mutamenti climatici. Ma i movimenti di popolazione primitivi erano vere «migrazioni». Da quando l’umanità ha iniziato a sviluppare culture stanziali grazie all’agricoltura – e dunque non era più obbligato a correr dietro alle mandrie di renne fra Siberia e Alaska – nasce anche il concetto di territorialità statica e con esso quello di «confine». Man mano che si allarga nella storia la porzione di terraferma colonizzata da popoli stanziali si restringe il concetto di «migrazione» per far posto a quello di «emigrazione» e «immigrazione». I luoghi da cui si parte e in cui si giunge sono un «dentro» e un «fuori» non più un generico nuovo territorio di caccia. Per questo oggi l’uso politicamente corretto del termine «migrante» per riferirsi a clandestini, profughi e immigrati a vario titolo è sostanzialmente improprio e rappresenta un subdolo meccanismo per imporre l’idea che non esista più un «emigrazione da» per «immigrare in», ma un semplice, eterno spostarsi da nomade. Una mutazione antropologica che certamente moltissimi auspicano per il futuro (ad esempio l’ex presidente della Camera Laura Boldrini il 31 marzo 2014) ma che al momento non ha alcuna aderenza con la realtà materiale.
L’uso politicamente distorto del concetto di «migrazione» dunque impedisce una comprensione scientifica dei fenomeni umani. È impossibile, e scorretto, paragonare Enea a un «rifugiato» moderno o le orde indoeuropee di 3.400 anni fa ai barconi di subsahariani di questi mesi. La semplice differenza fra la densità di popolazione europea nell’Età del Rame e quella moderna rende impossibile ogni accostamento. La stessa conformazione geopolitica dell’Eurasia era totalmente differente: l’intero blocco continentale era suddiviso in aree periferiche, dove si stavano sviluppando culture stanziali, urbanizzate e perfino imperi, e poi una vasta area centrale, le «steppe», che dal Danubio fino all’Amur costituivano un immenso bacino ribollente di popoli nomadi che – sebbene appartenenti a due razze e a decine di stirpi e ceppi linguistici differenti – sono stati forgiati dal determinismo geografico in forme culturali straordinariamente simili fra loro. Le orde di questi popoli – cavalieri, guerrieri, adoratori del cielo, patriarcali – fossero Achei, Ariani, mongoli o turchi, hanno rappresentato un fenomeno costante nella storia dell’Eurasia «calando» dalle loro steppe verso le coste e le valli, usualmente come razziatori ma spesso anche come conquistatori. Le loro vittime erano le popolazioni urbanizzate – contadini, adoratori della terra, matriarcali – e le invasioni si risolvevano in «stupri» da cui sono nati gli imperi e le civiltà del passato, fino al Medioevo.
Gli Indogermanici hanno sottomesso le popolazioni di Europa e Mediterraneo, gli Ittiti si sono stanziati in Anatolia, Medi e Persi hanno scalzato gli imperi semiti della Mesopotamia, gli Ariani hanno conquistato la valle dell’Indo. La protostoria cinese, coreana e – almeno al suo inizio – giapponese è parimenti un susseguirsi di migrazioni seminali dalle steppe. Fin quando – nel tardo Medioevo – le civiltà stanziali dell’Eurasia non diventano sufficientemente forti da confinare una volta per tutte le popolazioni delle steppe, l’intera storia del continente può essere rozzamente esemplificata come una serie di violente migrazioni di popoli guerrieri che conquistano i popoli contadini delle periferie edificando civiltà e imperi. Poi, quando demograficamente le steppe ricominciano a produrre esuberanza di uomini, le orde si ricompattano e un nuovo ciclo si avvia. Ma in Eurasia le migrazioni interne non si limitano a questi cicli epocali. Alla base della civiltà mediterranea ci sono le tre ondate colonizzatrici fenicia, greca e infine romana. Se la prima ha un impatto demografico limitato, quella ellenica vede ben tre ondate che mutano profondamente la composizione etnica dell’intera regione che va da Marsiglia all’Indo. Dopo l’invasione indoeuropea dell’Ellade le prime colonie sorgono sulla sponda orientale dell’Egeo (XI sec. a.C.). Poi vi è la grandiosa spinta verso la Magna Grecia, le coste del mar Nero e dell’Africa settentrionale (dal VIII al VI secolo a.C.). Infine la colonizzazione pianificata avviata da Alessandro Magno (356 a.C. – 323 a.C.), e portata avanti dai suoi successori che condurrà l’elemento etnoculturale greco a egemonizzare tutto il Medio Oriente per quasi nove secoli, fino all’invasione islamica. Come da manuale queste migrazioni implicavano quasi sempre un gioco a somma zero: se la colonizzazione riusciva, a farne le spese erano gli autoctoni, che finivano scalzati dalle loro terre. Se non riusciva, i coloni raccoglievano le loro cose e si imbarcavano di nuovo, verso nuovi lidi.
Dura è la sorte delle popolazioni italiche incontrate dai Greci nella loro epopea colonizzatrice nel nostro Mezzogiorno. Elimi, Sicani, Siculi e Morgeti incontrati dai coloni ioni e dori nella Trinacria vengono progressivamente spinti all’interno dell’isola. Spesso rancorosamente alleati dei Cartaginesi contro i Greci, non possono tuttavia non subire l’influenza della più raffinata cultura ellenica e improvvisamente spariscono dalla storia. Alla fine del IV secolo, molto semplicemente, le cronache non parlano più dei Siculi, mentre Sicani e Morgeti erano già stati inghiottiti dall’oblio da alcuni decenni. Solo gli Elimi, a loro volta forse figli di immigrati dall’Asia Minore, resistettero fino alla conquista romana della Sicilia. Anche l’altra grande città ellenica in Magna Grecia, Taranto, venne fondata sul sangue dei popoli indigeni: secondo Eusebio di Cesarea i coloni spartani guidati da Falanto che sbarcarono sulle coste della Puglia ionica nel 706 a.C. devastarono i villaggi iapigi e trasformarono il piccolo porto iapigio di Saturo nella loro base principale, da cui sorse qualche anno dopo Taras, l’antica Taranto.
Meno traumatica fu l’espansione a est dei Greci sotto Alessandro e i successori ellenistici. Esistevano già i precedenti delle colonie greche stanziate sulla costa egizia con il beneplacito dei faraoni, e l’Impero Persiano conquistato dal Macedone era già una gigantesca compagine multietnica retta da un dispotismo assoluto (anzi, si può dire che il concetto di impero universale nasca proprio là). La fusione fra Greci e Persiani è voluta fortemente da Alessandro, che impone ai suoi uomini matrimoni misti ed egli stesso sposa le figlie dello sconfitto Dario III di Persia, Statira, e del satrapo di Battriana, Rossane. La colonizzazione romana invece è pianificata scientificamente come strumento di conquista. Le terre dei popoli sconfitti vengono redistribuite ai veterani delle legioni e agli alleati fedeli di Roma. I coloni romani, insomma, non devono combattere dopo aver fondato le loro città, ma le fondano come simbolo del potere dell’Urbe. Anche in questo caso il flusso migratorio dall’Italia è imponente e forgia anche etno-linguisticamente il volto del Mediterraneo occidentale, dalle coste albanesi alla Spagna, dall’Atlante alla Tunisia. Anche la Gallia, che dopo la conquista di Cesare subisce una devastazione etnica senza precedenti in Europa, viene profondamente romanizzata con l’invio di decine di migliaia di coloni, specialmente lungo il limes, cioè il confine estremo dei territori controllati da Roma. L’ultimo guizzo di questa vitalità demografica romana è con l’imperatore Traiano e la sottomissione della Dacia (105-107 a.C.). Nonostante la conquista fosse effimera (nel III secolo i Romani abbandoneranno la provincia ai Goti) l’elemento romano o romanizzato di quella regione rimarrà abbarbicato alla sua identità latina come un naufrago su uno scoglio, e le tempeste etniche dei secoli successivi – Goti, Unni, Peceneghi, Alani, e poi bulgari, magiari, mongoli… – non saranno in grado di estinguerlo. Nel nome del «parcere subiectis et debellare superbos» (cioè «risparmiare chi si sottomette e annientare i ribelli») Roma ha sterminato intere popolazioni. Il posto liberato veniva quindi assegnato ai cittadini romani e italici piantando così ben salde nei territori conquistati i propri artigli. È il caso di Gerusalemme, città che dopo la Guerra Giudaica (78-80 d.C.) era finita in rovina e che nel 130 d.C. l’imperatore Adriano pensò di ricostruire come colonia romana: Elia Capitolina. Un tentativo effimero di stabilire in quella regione la pax romana… La terra di Canaan, infatti, è da 1.200 anni prima di Cristo campo di battaglia e di sterminio. L’immigrazione in quella regione delle Dodici Tribù di Israele, grazie alla narrazione biblica che ne è stata tramandata, diventerà uno dei modelli per le emigrazioni europee (soprattutto protestanti) verso le colonie. Uno dei libri dell’Antico Testamento, il Deuteronomio, contiene la spiegazione e la motivazione dello sterminio dei Cananei da parte degli Israeliti intorno al tredicesimo secolo a.C. e con cui, molti secoli dopo, i pionieri delle Tredici Colonie (il primo nucleo di quelli che diventeranno gli Stati Uniti d’America), gli afrikaans boeri insediatisi nell’attuale Sud Africa e i coloni australiani giustificarono le loro spinte verso i territori abitati da indigeni, territori che ciascun gruppo considerava la propria «terra promessa». «Quando il Signore Dio tuo ti avrà fatto entrare nella terra alla quale sei diretto per prenderne possesso, e ne avrà cacciate d’innanzi a te molte nazioni gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te… e quando il Signore Dio tuo te le avrà date in potere e tu le avrai sconfitte, dannale allo sterminio, non venire a patti con loro e non conceder loro grazia» dice appunto il Deuteronomio. E continua: «nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare». La pulizia etnica non si limitava all’annientamento dei popoli di Canaan, ma anche al genocidio culturale: «Distruggerete completamente tutti i luoghi dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti monti, sui colli e sotto ogni albero verde. Demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco le statue dei loro dèi e cancellerete il loro nome da quei luoghi». L’immigrazione ebraica nella terra di Canaan dunque si rivelò un disastro apocalittico per le popolazioni locali che furono largamente scacciate dalla terra «promessa», ovvero quella compresa fra il mare e il Giordano.
La lezione della Bibbia rimase ben presente nelle menti dei discendenti dei Padri Pellegrini, inglesi e protestanti, di cui s’accennava più sopra. Fanaticamente convinti di essere il nuovo «popolo eletto» mandato dal Signore a colonizzare una nuova «terra promessa», non ebbero difficoltà a identificare nei «selvaggi pagani» i nuovi Cananei da sterminare (col permesso del Signore, beninteso). L’intera retorica dell’emigrazione europea nel Nuovo Mondo, e in particolare quella anglosassone, dimentica continuamente che quelle nazioni costruite da «emigrati europei» hanno innalzato le loro fondamenta sullo sterminio sistematico dei pellerossa, dall’Alaska al Nuovo Messico. Più intrisi di zelo evangelico che di furore biblico, invece, spagnoli e portoghesi in America Latina non procedettero apertamente al genocidio dei nativi. Fin dall’avvento dell’Impero spagnolo (quello su cui non tramontava mai il sole) l’imperatore Carlo V (1500 – 1558) impose il rispetto degli indios e il divieto di trarli in schiavitù. Ma fra il dire e il fare c’era di mezzo l’oceano Atlantico e gli avventurieri spregiudicati che partivano da Cadice per andare a far fortuna nel Nuovo Mondo erano ben poco controllabili da Madrid. Le popolazioni demografica dei milioni di spagnoli che lentamente colonizzarono quel continente, finendo relegati nelle terre più inospitali e in ruoli subalterni nella gerarchia sociale dei paesi che lentamente si formarono dai cocci dell’Impero spagnolo. Anche quelle nazioni indie che si allearono con gli spagnoli per liberarsi dall’oppressione azteca o incaica subirono il lento afflusso dei bianchi, a cui furono cedute terre e ricchezze. A fare poi spazio per i nuovi arrivati, le malattie portate dai nuovi arrivati. Rimasti isolati dai loro luoghi d’origine in Eurasia, gli amerindi per 20 mila anni avevano affrontato un numero limitato di epidemie rispetto a quelle che periodicamente ammorbavano il Vecchio Mondo, sovrappopolato e interconnesso da carovaniere, mercanti, eserciti, pellegrini e nomadi. Quando gli europei giunsero sulle coste dell’America portarono involontariamente anche altri insidiosi coloni: i microbi. Ancora oggi è oggetto di dibattito quello che fu l’impatto delle epidemie portate dalle caravelle spagnole in America. Di sicuro si tratta di milioni di persone contagiate e uccise in quello che fu uno dei più grandi stermini della storia. Vaiolo, morbillo, sifilide, salmonellosi, varicella, malattie polmonari… i sistemi immunitari degli amerindi erano del tutto impreparati ad affrontare queste malattie. Alcune regioni, come l’isola di Santo Domingo, vennero totalmente spopolate dalle epidemie che attaccavano con più facilità le popolazioni che venivano sfruttate dai governatori spagnoli nelle miniere e nelle piantagioni. Nell’America settentrionale i coloni inglesi e francesi sfruttarono invece coscientemente le malattie per sterminare gli indiani, vendendo loro coperte e abiti appartenuti a malati di vaiolo: una stima delle perdite indiane conseguenti alla guerra di Pontiac (1763) dà la spaventosa cifra di 400-500 mila vittime del vaiolo in gran parte diffuso dai coloni «per sterminare questa esecrabile razza», come disse generale britannico Jeffery Amherst (1717-1797). Il deliberato genocidio degli indiani del Nordamerica non fu solo condotto fisicamente, ma anche attraverso l’esportazione di modelli culturali di vita irriducibili a quelli indigeni. Il mistico indiano Neolin, detto il «profeta dei Delaware», nel XVIII secolo invitò i nativi americani a fare a meno di oggetti, alcool e armi dei bianchi: «Se accettate gli inglesi tra voi», disse Neolin, «siete morti. Malattie, vaiolo e il loro veleno [gli alcolici] vi distruggeranno completamente». Anche la diffusione dell’alcolismo venne condotta coscientemente dai coloni inglesi per minare alla base la resistenza indiana, più o meno come si stava facendo con l’oppio in Cina, dall’altra parte del Pacifico. Ma al di là del caso specifico, la realtà sociologica è che le migrazioni umane non portano con loro solo guerre, sopraffazioni e malattie ma anche disastri socio-culturali. Smentendo completamente la retorica del «melting pot» e dell’«arricchimento» che porterebbe la società multietnica e multiculturale, uno sconvolgente studio di Robert D. Putnam, docente presso l’università di Harvard, svolto nel 2001 ma pubblicato integralmente solo nel 2007 ha dimostrato che l’aumento della «diversità» in una collettività è associato direttamente al calo della fiducia reciproca, tanto fra gruppi etnici quanto all’interno degli stessi, fra individui della medesima razza, cultura e religione.
Nel 2013 l’ultimo romanzo di Tom Wolfe, «Le ragioni del sangue» descriveva in maniera letteraria la situazione fotografata da Putnam con la statistica. Una storia di immigrazione negata in una Miami talmente multietnica da essere diventata un agglomerato di sotto-città che non comunicano fra loro, con i bianchi chiusi nelle torri d’avorio dei loro esclusivi consorzi di ville e le etnie «colorate» (ispanici, negri, asiatici…) a dividersi il malaffare dei bassifondi e il potere politico in città. Wolfe, l’inventore del termine «radical chic» e autore del celebre «Il falò delle vanità», è stato crocifisso dalla critica liberal. Ma la realtà rappresentata nelle pagine del suo romanzo è sotto gli occhi di tutti: il melting pot americano che prometteva di fondere in un crogiuolo tutti gli immigrati in una unica, nuova nazione, è fallito. E volenti o nolenti, il richiamo del sangue è imperioso («Back to blood» è il titolo originale del libro di Wolfe). La metafora del «crogiuolo» è stata ideata nel 1908 dal drammaturgo Israel Zangwill nell’opera «Melting Pot», un dramma in cui il mito della «terra promessa» si univa a quello dell’«uomo nuovo» nato dalla fusione di popoli, razze e religioni differenti. Già centotrent’anni prima lo scrittore francese naturalizzato americano J. Hector St. John de Crevecoeur aveva descritto la natura degli abitanti del nuovo paese nato dalla rivoluzione di Giorgio Washington come una mescolanza di «inglesi, scozzesi, irlandesi, francesi, olandesi, tedeschi e svedesi». Alla base della Statua della Libertà è piazzata una lapide con i versi della poetessa ebreo-portoghese Emma Lazarus: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata». Il mito dell’America come terra dove i reietti dell’Europa e coloro che desideravano una nuova vita potevano ricominciare da capo, azzerando perfino i propri retaggi culturali è stato a lungo il pilastro portante degli States, e ha perfino funzionato. Cosa oggi impensabile e che anzi risulterebbe intollerabile ai sostenitori della libera immigrazione, milioni di emigranti dall’Europa come primo atto della loro nuova vita hanno cambiato i loro nomi e cognomi per americanizzarli.
Eppure il miraggio della Statua della Libertà era molto meno poetico e democratico di come lo si vuole vedere: i viaggi transatlantici della seconda metà dell’Ottocento avevano un tasso di mortalità di un passeggero su sette secondo uno studio di Donna M. Wilson ed Herbert C. Northcott dell’Università di Toronto (2008). Una volta giunti sul nuovo continente, gli emigranti non avevano alcuna garanzia di potervi restare. Si era sottoposti a quarantena sanitaria e a stringenti controlli burocratici. Vi erano poi leggi che imponevano quote razziali: gli Stati Uniti proibirono l’immigrazione dei cinesi a partire dal 1882, atto che rimase in vigore fino al 1943; nel 1913 con l’Atto delle Quote di Emergenza il Congresso USA stabilì un tetto all’immigrazione pari al 3% in relazione a ciascuna componente etnica della cittadinanza statunitense: questo voleva dire che etnie più numerose potevano accogliere un numero assoluto di immigrati maggiore delle etnie più piccole, un atto che facilitava l’ammissione di immigrati dal nordovest europeo.
Nel 1924 l’intento razzista della legge di 11 anni prima venne messo nero su bianco: l’immigrazione dall’Europa meridionale e orientale e degli ebrei venne radicalmente ristretta e fu confermato il blocco dell’immigrazione dall’Asia orientale. E questo, probabilmente, favorì anche la concentrazione progressiva dell’emigrazione ebraica dall’Europa alla Palestina con tutti i problemi che ne sono conseguiti (comprese i reiterati tentativi israeliani di limitare se non cancellare la presenza palestinese in molte zone) e che sono ben evidenti anche oggi con la difficile convivenza tra palestinesi ed ebrei. Sotto i lunghi mandati della presidenza Roosevelt anche gli ebrei in fuga dalle leggi antisemite della Germania di Hitler vennero respinti e fu approvato il primo di una serie di atti di rimpatrio più o meno volontario per gli immigrati del Messico. Nel 1954 ben 1.075.168 di messicani vennero deportati oltreconfine. La presidenza Kennedy cambiò le cose: l’Atto sull’Immigrazione e la Nazionalità del 1963 perorato dal fratello minore del presidente, Ted Kennedy, aboliva le quote razziali, ma contemporaneamente rispondeva alla paura dell’americano medio rassicurandolo che le città «non sarebbero state invase da immigrati» e che «la mescolanza etnica del nostro paese non verrà sconvolta» da masse provenienti «dalle più povere regioni dell’Africa o dell’Asia». Confrontando la composizione etnorazziale degli States nel 1963 con quella attuale, non si può non constatare come le parole di Ted Kennedy siano state totalmente smentite. In ogni caso, l’immigrazione europea negli Stati Uniti si concretizzò nello sterminio delle popolazioni native. Non diversa fu la sorte degli indigeni in Argentina. L’incompatibilità fra lo stile di vita degli europei – stanziali, dediti all’agricoltura e all’allevamento – e quello degli indiani – nomadi, cacciatori e privi del concetto della proprietà territoriale – condusse a uno scontro inevitabile. Inutile cercare chi «sparò la prima pallottola». I bianchi avanzavano in territori apparentemente vergini, dove le popolazioni indigene praticavano caccia e raccolta estensiva o primitive forme di agricoltura. I tentativi di convivenza, che inevitabilmente prevedevano la fine dello stile di vita primitivo dei nativi obbligati ad adattarsi ai nuovi metodi di produzione europei, di solito finivano con la prevaricazione dei coloni nei confronti degli indiani, costretti a lavorare in condizioni di sfruttamento. La reazione indigena all’avanzata bianca fu a volte violenta: in Argentina migliaia di coloni bianchi furono massacrati e centinaia di migliaia di capi di bestiame vennero dispersi negli attacchi degli indios. Il governo di Buenos Aires rispose con una serie di campagne militari e di colonizzazione. Inizialmente la politica argentina, voluta dal ministro della Guerra Adolfo Alsina (1829-1877), era quella di «popolare il deserto, non distruggere gli indiani». L’idea di Alsina era che la lenta civilizzazione del deserto avrebbe indotto gli indigeni ad adeguarsi allo stile di vita europeo. L’avanzata della colonizzazione fu promossa da Alsina con la creazione di veri e propri limes (la famosa «trincea di Alsina», lunga centinaia di km e protetta da fortini) e di linee telegrafiche che univano in una rete gli avamposti. L’improvvisa morte di Alsina nel 1877 portò al potere il «falco» Alejo Julio Argentino Roca Paz, che già aveva espresso violente critiche nei confronti della politica gradualista del suo predecessore. Roca era determinato a «estinguere, sottomettere o espellere» gli indigeni per far posto ai numerosissimi immigrati che in quegli anni stavano affluendo dall’Europa (e soprattutto da Spagna e Italia, rispettivamente il 24% e il 35% dell’immigrazione totale dal 1850 al 1940), e la sua politica di conquista fu largamente agevolata dai fucili Remington acquistati dagli Stati Uniti e ben collaudati sui Pellerossa.
Fra gli apparenti paradossi dell’avanzata degli immigrati europei in Argentina vi è che fra i più acerrimi avversari della conquista della Pampas da parte dei coloni europei, i Mapuche, erano a loro volta immigrati in quelle terre dalle regioni di confine dell’impero incaico. Là i Mapuche avevano opposto acerrima e vittoriosa resistenza alla sottomissione prima contro gli stessi Inca, poi contro gli spagnoli in un lungo conflitto che li aveva visti annientare diverse città iberiche. Dopo il 1598 i Mapuche iniziarono a espandersi anche in quello che sarebbe diventato territorio argentino, ma senza creare un vero e proprio Stato. Si trattava di una migrazione-conquista che sottomise e assorbì le popolazioni preesistenti. L’intera storia dell’America precolombiana è comunque una serie di spostamenti di popolazioni che hanno provocato disastri etnici nelle terre in cui si sono spostate: nel XVI secolo gli Irochesi presero le terre degli Uroni (corrispondenti all’attuale regione canadese dell’Ontario) e dopo l’arrivo degli europei le due nazioni indiane continuarono la loro guerra alleandosi rispettivamente con gli inglesi e i francesi. Le sconfitte subite sul campo spinsero gli Uroni superstiti a emigrare e rifugiarsi in Quebec, sotto la protezione francese. Più a sud l’Impero azteco venne fondato da un gruppo di immigrati dal Messico settentrionale (la mitica regione di Aztlàn, ancora non identificata). Inizialmente ridotti a elemosinare la terra dove stanziarsi alle potenti città-stato sorte attorno alla valle di Messico, spesso attaccati e scacciati, riuscirono finalmente a costruire un insediamento su un’isola semi-artificiale nel lago Texcoco: Tenochtitlan. Poco dopo gli immigrati Mexica fondarono altre due città nel raggio di pochi chilometri: Texcoco e Tlacopan. Inizialmente sottomesse alle città-stato preesistenti, nel XV secolo la triplice alleanza di Tenochtitlan, Texcoco e Tlacopan iniziò a sottomettere uno a uno i popoli dell’Altopiano del Messico. Quando giunsero gli spagnoli nel 1520 non furono poche le città che si allearono con gli europei per liberarsi dal duro giogo azteco.
Ma questa carrellata necessariamente incompleta degli spostamenti di massa umani nella storia non può chiudersi senza almeno un cenno a quei fenomeni di reflusso delle ondate migratorie, le «remigrazioni». Dipinte dai media mainstreamcome «movimenti epocali» che è «impossibile arrestare» e men che meno invertire, le migrazioni hanno invece conosciuto avanzate e ritorni. Anche questi ultimi di norma dolorosi e sanguinosi. Basti pensare all’espulsione di milioni di coloni tedeschi dall’Europa orientale nel 1945. Il Drang Nach Osten, la spinta tedesca verso est, era iniziata pacificamente nel 1200. Allora l’esuberanza demografica tedesca venne vista dai giovani regni dell’Europa orientale come una fonte di braccia e manodopera particolarmente colta. I tedeschi, invitati dai sovrani locali, costruirono centinaia di cittadine dalla Slesia ai Sudeti, dalla Prussia alla Transilvania, spingendosi fino in Curlandia, Russia e Croazia. Questa enorme massa umana nel 1945 venne perseguitata e rifluì – tra mille angherie e veri e propri massacri – in quel che restava della Germania: qualcosa come 14 milioni di profughi e centinaia di migliaia furono coloro che vennero massacrati prima di arrivare in salvo. Anche se meno sanguinose, in quegli anni si consumarono anche le remigrazioni dei coloni europei dall’Africa. Centinaia di migliaia di italiani da Africa orientale e Libia (gli ultimi poi espulsi da Gheddafi con l’esproprio d’ogni bene nel settembre 1969; altri ottantamila furono invece gli italiani presenti in Tunisia che, a partire dal 1943, vennero espulsi dalle autorità coloniali francesi). E francesi invece erano il milione di «piedi neri» algerini, il 10% della popolazione totale dell’Algeria, fuggiti dal paese nei lunghi anni di guerra civile, per lo più nel 1962. E remigrazioni, con tutti i distinguo del caso, vanno considerate anche le espulsioni delle minoranze turche da Grecia e Bulgaria e l’espulsione dei greci dalla Turchia dopo la Grande Guerra, così come l’ingresso in Palestina di milioni di ebrei provenienti per lo più dall’Europa.