Nel settembre del 70 d.C., a seguito di sette mesi di assedio, le legioni di Tito penetrarono a Gerusalemme scatenando una terribile repressione contro la popolazione e riducendo la città a un cumulo di macerie. Un avvenimento che ha influenzato profondamente il corso della storia
“Ciascuno di noi con la sua fantasia poteva immaginare le legioni romane assalire la città alta, bruciare le sue case e compiere la grande strage… Il padrone di casa, o uno degli occupanti, era riuscito a preparare una lancia; un altro non aveva fatto in tempo a uscire, morendo tra le fiamme. Ma la prova di questo evento storico veniva a manifestarsi davanti a noi con la freschezza della sorpresa e con lo spaventoso realismo dei suoi crudi particolari, come se il tempo non fosse passato”. Chi scrive – nel 1983 – non è un romanziere, ma l’archeologo che qualche mese prima si era reso protagonista di un ritrovamento tanto sensazionale quanto macabro. Scavando una cantina in Tiferet Israel Street, nel quartiere ebraico di Gerusalemme, Nahman Avigad e la sua squadra rinvennero, sul pavimento di una grande abitazione signorile, le ossa del braccio di una ragazza poco più che ventenne. Cercarono tutto intorno, ma non riuscirono a trovare il resto di quel corpo martoriato. Nella stanza accanto, invece, fu scoperta una lancia addossata a un muro e, poco lontano, suppellettili di vario genere ricoperti da uno spesso strato di cenere; un chiaro segnale che l’antica casa era stata rasa al suolo da un terribile incendio.
Gli studiosi capirono subito di essersi imbattuti in una sorta di capsula del tempo che aveva sigillato gli ultimi, drammatici istanti di una tragedia avvenuta duemila anni prima. Le sorprese però non erano ancora terminate. Poco dopo emersero alcune rare monete recanti l’iscrizione “Anno quarto della Redenzione di Sion”, ovvero il quarto anno della rivolta ebraica contro Roma: erano state coniate – non c’erano dubbi a riguardo – nel 69 d.C., un anno prima cioè della caduta di Gerusalemme sotto i colpi delle legioni di Tito dopo un assedio durato sette mesi. Gli archeologi erano esterrefatti: non avevano trovato le tracce di un dramma familiare isolato dovuto a cause accidentali, ma le vestigia dell’epilogo di una delle guerre più sanguinose e difficili combattute nell’antichità nel Vicino Oriente: la prima guerra giudaica.
LA PROFEZIA CHE SI COMPIE
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, testimone attendibile perché presente agli avvenimenti, ricorda come sul finire di agosto del 70 d.C. i soldati romani, dopo aver abbattuto le ultime difese di Gerusalemme, si riversarono nelle strade e “massacrarono in massa quelli che presero e, se qualcuno cercava scampo chiudendosi nelle case, appiccavano il fuoco alle abitazioni con tutte le persone che vi erano dentro”. Il destino patito dalla fanciulla trovata da Avigad era, senza ombra di dubbio, lo stesso a cui erano andate incontro altre decine di migliaia di individui. Ma la furia dei conquistatori non si era placata col massacro. Secondo testimonianze coeve, ai romani fu necessario un altro mese per aver ragione dei ribelli rimasti in città; chi non fu ucciso fu messo in catene e venduto come schiavo, altri furono spediti a lavorare nelle miniere d’Egitto, i più sfortunati furono costretti a combattere come gladiatori o con le bestie feroci negli anfiteatri dell’impero. Tito diede infine l’ordine ai suoi uomini di abbattere ciò che restava di Gerusalemme: la quasi totalità degli edifici, compreso il Grande Tempio, il santuario più sacro per il popolo ebraico, furono così completamente rasi al suolo. L’operazione fu condotta con certosina efficacia: gli archeologi israeliani impegnati negli scavi in prossimità del Monte del Tempio hanno trovato migliaia di pietre – in alcuni casi pesanti fino a cinque tonnellate – che in origine costituivano i ciclopici contrafforti della struttura, divelte e fatte precipitare nello spazio sottostante, dove sono rimaste fino ai nostri giorni. Nulla si salvò dalla distruzione se non i resti del muraglione occidentale, ma solo perché avrebbero dovuto servire come protezione per l’accampamento della X Legio Fretensis, impegnata nelle operazioni. Ai pochi sopravvissuti riecheggiò senz’altro nella mente la profezia formulata da Gesù ai sacerdoti del Tempio quasi quarant’anni prima: “In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta”.
L’ONTA DELL’AQUILA LEGIONARIA
Perché le legioni si accanirono con tale ferocia sui civili, massacrando senza pietà donne, vecchi e bambini? E come mai non fu posto alcun freno alla loro furia? Per comprenderlo occorre considerare che la capitolazione di Gerusalemme non fu un avvenimento isolato, ma giunse al culmine della Prima guerra giudaica, una vasta ribellione che insanguinò la Giudea per quattro lunghi anni a partire dal 66 d.C. Il conflitto, combattuto senza esclusioni di colpi, fu scandito da continui massacri da una parte e dall’altra.
Se già durante il regno di Caligola si erano verificate rivolte localizzate, causate dalla sua decisione di interferire con le pratiche religiose dell’Ebraismo (nel 41 l’imperatore aveva ordinato, per esempio, di collocare nel santuario del Monte del Tempio una statua colossale che lo raffigurava), fu con il suo successore, Nerone, che le cose precipitarono. All’inizio del 66, l’allora procuratore romano Gessio Floro ordinò – non sappiamo se per sua iniziativa o per ordine dell’imperatore – la sottrazione di diciassette talenti d’oro (il talento era un’antica unità di misura che corrispondeva a circa 32 chilogrammi) dal tempio di Gerusalemme. Il sopruso provocò una rabbiosa sollevazione popolare che sfociò nel massacro della locale guarnigione militare romana. Per tutta risposta, Nerone inviò il governatore romano di Siria, Cestio Gallo, a capo della Legio XII Fulminata con il compito di punire i ribelli. Dopo aver assediato la città ed esservi penetrato, però, il comandante diede ordine – una decisione che ancora oggi gli storici fanno fatica a spiegare – di interrompere le operazioni risparmiandola. Fu una scelta che avrebbe pagato a caro prezzo: sulla via del ritorno, presso il valico di Bet Oron, Cestio Gallo fu attirato in un’imboscata e subì gravi perdite. A rendere ancora più pesante il disastro fu la temeraria azione degli israeliti, che si impadronirono dell’aquila legionaria. L’inaudito affronto segnò definitivamente il corso della guerra e il destino di Gerusalemme, perché davanti a un simile atto di sfida – l’insegna costituiva il simbolo più sacro dell’esercito imperiale – la rabbia romana non poté che tramutarsi in odio e disprezzo. Lo sottolinea molto chiaramente lo storico Eric Cline, autore del saggio Gerusalemme Assediata: “È possibile che nelle successive campagne condotte da Vespasiano e Tito (…) recuperare l’aquila perduta, o almeno vendicarne la sottrazione, fosse non meno importante che soffocare la rivolta giudaica. È interessante ipotizzare che, se gli ebrei non avessero portato via l’aquila d’oro alla Dodicesima Legione, forse il Secondo Tempio esisterebbe ancora ai nostri giorni”.
CHE L’ASSEDIO ABBIA INIZIO
Quando, nei primi giorni di marzo del 70 d.C., Tito si accampò con le sue legioni alle porte di Gerusalemme, sapeva di avere le spalle ben coperte: il resto della Giudea era già stato “pacificato” dal padre, il generale Vespasiano, divenuto imperatore dopo la morte di Nerone. La scomparsa del controverso sovrano era stata improvvisa – era morto suicida per non cadere in mano ai suoi avversari, che si erano ribellati contro di lui – e Vespasiano, richiamato a Roma, era stato costretto a interrompere le operazioni militari nella regione, allora in pieno svolgimento, per correre nella capitale. Prima di partire Vespasiano aveva però avuto modo di dimostrare al figlio quanta fiducia nutrisse nei suoi confronti: lasciò infatti a lui il compito di soffocare la rivolta giudaica, mettendolo a capo di alcune delle migliori unità militari dell’impero.
Come ricorda Giuseppe Flavio, “lo accolsero in Giudea tre legioni: la quinta, la decima e la quindicesima, i vecchi soldati di Vespasiano”. C’erano anche la dodicesima della Siria e i reparti della ventiduesima e della terza richiamati da Alessandria. Se aggiungiamo le truppe messe a disposizione dagli alleati, l’esercito di Tito era forte di circa 65mila uomini. Il generale, ben conscio delle difficoltà insite nell’impresa, era tuttavia rincuorato dalle notizie provenienti dall’interno della stessa Gerusalemme: alcuni informatori infatti l’avevano messo al corrente che le file dei difensori, quantificabili in quasi 24mila uomini (senza contare gli abitanti abili alle armi) erano indebolite da una serie di lotte intestine che avevano provocato non poche vittime. Lo smisurato odio per Roma riuscì però a mettere fine al bagno di sangue fratricida e, alla vista delle legioni fuori dalle mura, le diverse fazioni trovarono come per incanto la concordia necessaria per concentrare tutti i loro sforzi sul nemico, e anzi non ebbero nei suoi confronti alcun timore reverenziale. Quando Tito, piuttosto imprudentemente, decise di compiere un giro di ricognizione intorno alla città al comando di un drappello di cavalieri, fu attaccato in massa dai difensori che si lanciarono fuori dalle mura. Il loro assalto fu così rapido ed efficace che l’intera unità fu circondata; tuttavia, secondo Flavio, fu proprio la prontezza di Tito a risolvere la situazione quando ormai era quasi disperata: “Voltò il cavallo e gridando ai compagni di seguirlo si lanciò in mezzo ai nemici, aprendosi a forza il passaggio”. I romani, salvandosi a stento, impararono una lezione che si sarebbe rivelata fondamentale nel prosieguo degli scontri: mai sottovalutare questo avversario.
LOTTA SENZA QUARTIERE
Dopo un’attenta valutazione delle difese di Gerusalemme (era protetta da tre possenti ordini di mura), Tito “schierò il meglio delle sue forze – ricorda ancora Flavio – di fronte al settore settentrionale e occidentale delle mura: tale schieramento era su sette file, davanti i fanti e dietro i cavalieri, gli uni e gli altri su tre file; in mezzo i frombolieri”; la Legio X rimase invece acquartierata sul Monte degli Ulivi. Un terzo delle truppe ricevette a sua volta l’ordine di erigere una serie di terrapieni per isolare la città dall’esterno.
L’operazione, protrattasi per circa due mesi, fu contrastata da continue sortite del nemico, che finirono per esacerbare ulteriormente gli animi dei romani che, per tutta risposta, fecero affluire in prima linea un gran numero di catapulte e baliste in modo da proteggere il lavoro dei legionari e nel contempo demoralizzare i difensori facendo cadere all’interno della città colpi devastanti. I combattimenti veri e propri iniziarono ai primi di maggio, quando furono condotte in prossimità dei bastioni tre torri di legno alte oltre venti metri, protette da spesse lastre di metallo, sulla cui sommità erano posizionati arcieri e macchine da assedio leggere.
Sebbene anche i difensori ne fossero dotati, i romani potevano contare su modelli molto più potenti (in particolare quelli a disposizione della Legio X) grazie ai quali, scrive Flavio, “non solo respingevano le sortite, ma battevano anche i difensori sulle mura. [Le macchine] Scagliavano pietre del peso di un talento e avevano una gittata di due stadi e più [lo stadio nell’antica Roma misurava circa 185 metri]; i loro colpi abbattevano non soltanto i primi a essere raggiunti, ma anche quelli che stavano dietro”. Dopo quindici giorni, i romani aprirono finalmente una breccia nel primo muro e le truppe poterono riversarsi all’interno del quartiere settentrionale, mettendolo a ferro e fuoco. Tito decise allora di trasferire l’accampamento all’interno, ordinando ai suoi di non infierire contro abitazioni e civili: una decisione che fu però interpretata dai difensori come un chiaro segno di debolezza e finì per galvanizzarli.
Quando un migliaio di romani, utilizzando alcuni arieti, riuscirono a superare anche il secondo muro, furono dunque ricacciati indietro da un contrattacco ben coordinato. Tito comprese la lezione e decise che da quel momento in poi non ci sarebbe stato più spazio per la pietà. Ai romani furono necessari ben quattro giorni, caratterizzati da continui contrattacchi e forti perdite da ambo le parti, per rioccupare il terreno perduto. A quel punto gran parte della città bassa era in mano agli assedianti. Restava tuttavia da superare lo scoglio più arduo: la parte alta con il Monte del Tempio, dove si erano asserragliati tutti i difensori più agguerriti.
A metà giugno le legioni portarono a termine la costruzione di quattro immensi terrapieni che arrivavano all’altezza dell’ultima cerchia di mura e fungevano da piattaforme per l’azione di torri e arieti. I difensori però continuavano a dar loro filo da torcere, attaccandole senza sosta. In alcuni casi ottennero anche successi significativi: la piattaforma costruita dalla Legio V, per esempio, fu fatta crollare ricorrendo a un ingegnoso tunnel di mina. Ma i romani non mollavano. La situazione all’interno di Gerusalemme, intanto, si faceva sempre più difficile e ormai era quasi disperata: il cibo era esaurito da tempo e la carestia divenne così grave da portare – su questo particolare le fonti sono drammaticamente eloquenti – a episodi di cannibalismo. La città era in balia delle violenze e dei soprusi: chi veniva anche solo sospettato di aver messo da parte scorte di cibo veniva torturato finché non rivelava dove le aveva nascoste. Non pochi, spinti dalla disperazione, si avventurarono fuori dalle mura in cerca di erbe e radici e furono catturati, andando incontro a un destino tremendo: vennero crocifissi davanti agli spalti dopo un atroce supplizio. Quando Tito diede ordine di sigillare completamente la città costruendovi intorno un bastione di sette chilometri, la sorte di Gerusalemme fu segnata. Non sapremo mai quante persone morirono di fame o durante le sortite – il numero fornito da Flavio, 600mila, è naturalmente un’esagerazione – ma di certo fu una tragedia colossale.
Verso fine luglio la morsa romana si fece ancor più vigorosa e dopo la cattura, e la distruzione completa, della possente fortezza Antonia (oggi non ne rimane alcuna traccia), Tito poté concentrare tutti gli sforzi contro il Grande Tempio, localizzato a ridosso delle mura orientali della città e protetto da possenti bastioni. Anche in questo caso fece erigere diversi terrapieni – almeno tre, ricordano le fonti – in vari punti del perimetro per alloggiarvi le macchine ossidionali. L’impiego degli arieti si rivelò però inefficace per lo spessore della muratura, quindi Tito diede ordine di appiccare il fuoco ai giganteschi portali del tempio. Non appena l’incendio ne ebbe distrutto l’anima lignea e fuso la copertura metallica, i legionari irruppero nei cortili esterni e, ingaggiata una battaglia all’ultimo sangue, costrinsero i nemici ad arretrare fin nel cuore del santuario. Gli ultimi giorni di agosto del 70 furono i più cruenti dell’intero assedio e, per quanto i difensori abbiano continuato a battersi con grande coraggio, il loro destino era irrimediabilmente segnato.
DISTRUZIONE TOTALE
I soldati romani riuscirono infatti ad abbattere anche l’ultima barricata e irruppero nel cuore del tempio: a quel punto sterminarono chiunque capitasse loro di fronte senza alcuna pietà, nemmeno per i feriti o i moribondi. La mattanza, racconta Flavio, fu terrificante: “Intorno all’altare si accumulò un mucchio di cadaveri mentre lungo la scalinata del tempio correva un fiume di sangue e rotolavano i corpi di quelli che venivano massacrati su in alto”.
Lo storico sostiene che Tito avesse dato ordine di risparmiare almeno il sancta sanctorum, il recesso più interno del tempio dove erano custodite le tavole della legge, ma la sua volontà non fu rispettata: pare anzi che un legionario, accecato dall’odio, abbia lanciato una torcia al suo interno provocando un incendio incontrollabile che, in poco tempo, divorò completamente l’edificio. Era il 28 agosto del 70 d.C., una data che sarebbe rimasta impressa per sempre nell’immaginario del popolo ebraico.
L’orgia di sangue e morte assunse dimensioni apocalittiche: “Mentre il tempio bruciava – scrive Flavio – gli assalitori saccheggiarono qualunque cosa capitava e fecero un’immensa strage di tutti quelli che presero, senza alcun rispetto per l’età né riguardo per l’importanza delle persone: bambini e vecchi, laici e sacerdoti, tutti indistintamente vennero massacrati”.
Come ha sostenuto lo storico Eric Cline: “L’entità del saccheggio raggiunse proporzioni mai viste prima. L’ammontare esatto del bottino accumulato in tale occasione non è noto, ma dovette essere talmente vasto che, in seguito, in tutta la Siria l’oro scese alla metà del valore di prima”. La sete di vendetta di Roma però era ben lontana dall’essersi placata: sull’intera area del tempio, ridotta ormai a un cumulo di macerie, si abbatté una damnatio memoriae secolare e nulla, per quasi mezzo millennio, poté più esservi edificato.
Le cose sarebbero cambiate solo all’indomani della conquista araba, con la costruzione della moschea al-Aqsa e della Cupola della Roccia sull’Haram al Sharif (l’originario Monte del Tempio): ma era ormai l’alba dell’VIII secolo. Quella cicatrice non si sarebbe più sanata.
UN LUOGO SIMBOLICO CON UN TRISTE PRIMATO
Per nessun’altra città si è combattuto tanto nel corso dei secoli: questa è l’amara verità che si svela a chiunque si appresti a studiare la millenaria storia di Gerusalemme. Una questione che lo storico Eric Cline sintetizza efficacemente: “Sono almeno centodiciotto i conflitti che si sono verificati a Gerusalemme e per Gerusalemme nel corso degli ultimi quattro millenni, conflitti che spaziano dagli scontri religiosi locali fino alle campagne militari strategiche, sfumature intermedie comprese. La città è stata distrutta almeno due volte, assediata ventitré volte, attaccata altre cinquantadue volte, e conquistata e riconquistata quarantaquattro volte”.
Per non parlare poi delle innumerevoli ribellioni. Tra tutte, la distruzione operata dai romani nel 70 d.C. è stata senza ombra di dubbio la più cruenta, devastante e dolorosa, visto che culminò con la distruzione del Secondo Tempio (il cosiddetto Primo Tempio era stato completamente distrutto per mano di Nabucodonosor nel 586 a.C.). Un primato quello di Gerusalemme davvero poco invidiabile. Perché un simile accanimento? La risposta non può certo essere legata a fattori economici o militari, visto che il sito dove sorge è lontano dalla costa, dai traffici mercantili e dalle vie di comunicazioni.
L’unica vera risposta è rappresentata dall’altura che sovrasta la città, il Monte del Tempio per gli ebrei, il nobile santuario (Haram al Sharif ) per gli arabi; un luogo che lo storico Gershom Goremberg ha definito “la proprietà immobiliare più contestata sulla faccia della Terra”. Un sito sacro alle tre grandi religioni monoteistiche (ebraica, cristiana e musulmana). Lì in origine svettava una roccia, ritenuta sacra, che a un certo punto fu inglobata nelle mura del tempio di Salomone e successivamente sotto la “Cupola delle Roccia”, il terzo luogo più sacro dell’Islam.
Secondo il Corano, da qui Maometto sarebbe asceso al cielo, mentre per la tradizione ebraica in quel punto esatto Abramo avrebbe offerto a Dio il figlio Isacco. Solo tenendo presenti questi elementi è possibile forse comprendere quanto sia grande, ancora ai giorni nostri, il significato di questo sito per milioni di fedeli, e anche perché sia così conteso.
Gerusalemme è un simbolo per cui non si è mai esitato, e mai si esiterà probabilmente, a combattere e uccidere.
L’assedio di Gerusalemme in 4 fasi
1. STUDIO DEL TERRENO
Nel marzo del 70 d.C. Tito, dopo un attento studio della morfologia del terreno, intuisce che il punto debole delle difese di Gerusalemme è il lato settentrionale, laddove il terreno pianeggiante consente di condurre più facilmente a ridosso delle mura le macchine da assedio. Gli altri versanti invece, affacciati su valli anguste e accidentate, sono praticamente inespugnabili. Per tale ragione ordina che tre delle legioni a sua disposizione si accampino in prossimità del settore nord-occidentale, in modo da poter condurre l’attacco da più direzioni. È allo stesso tempo cosciente che, così facendo, i legionari per raggiungere il cuore della città e il Monte del Tempio dovranno superare ben tre cerchie di mura. Ma non è la sola cosa a preoccuparlo: le continue sortite nemiche, finalizzate a disturbare il lavoro dei suoi uomini, sono una spina nel fianco. Solo il massiccio impiego di baliste e catapulte, fatte affluire in prima linea, riesce a tenerle a freno, ricacciando i giudei all’interno delle mura.
2. ASSALTO AL PRIMO E SECONDO ORDINE DI MURA
Ai primi di maggio, dopo aver costruito possenti terrapieni, le forze romane fanno affluire in prima linea tre possenti torri da assedio alte oltre venti metri e ricoperte di lastre metalliche per condurre un attacco simultaneo sui lati settentrionale e occidentale. Dalla loro sommità arcieri e baliste bersagliano il nemico che, per forza di cose, deve tenersi lontano dagli spalti e abbandonarli. Dopo quindici giorni di durissimi combattimenti, i legionari riescono ad aprire un breccia nel primo muro e a riversarsi nella “città nuova”, facendo arretrare i difensori dopo furiosi corpo a corpo. Tito ordina che il campo base per le future operazioni sia installato all’interno di quel settore appena conquistato. Pochi giorni dopo, un migliaio di soldati romani riesce a penetrare anche il secondo ordine di mura per subire, subito dopo, un contrattacco che li costringe a ritirarsi in fretta e furia. Per recuperare il terreno perduto saranno necessari altri quattro giorni di scontri, con forti perdite da ambo le parti.
3. LA CADUTA DELL’ANTONIA
Dopo aver superato le prime due strutture, le legioni si lanciano all’assalto dell’ultima cerchia di mura mediante la costruzione di terrapieni colmi di macchine d’assedio. Due legioni attaccano la fortezza Antonia, che protegge il Monte del Tempio, e altre due si accaniscono contro il settore occidentale in prossimità della porta di Giaffa. I giudei continuano con la tattica di logoramento riuscendo a ottenere successi insperati: un terrapieno collassa e diversi contrattacchi permettono di ricacciare indietro il nemico. Tito ordina allora la costruzione di un vallo, difeso da torri di cinta, a circondare l’intera città per isolare il nemico e stremarlo. Con la conquistata dell’Antonia, la sorte di Gerusalemme è segnata.
4. LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO
L’ultimo atto dell’assedio è caratterizzato dall’assalto alle potenti mura che proteggono il Grande Tempio, colmo di difensori superstiti. Dopo aver costruito tre terrapieni, i romani bersagliano le difese invano per via del loro spessore. Tito allora ordina di incendiare i portali che, dopo varie ore, alla fine collassano. A quel punto i romani riescono a penetrare nei cortili esterni del Tempio e, dopo un furioso combattimento, a respingere gli assediati all’interno del sancta sanctorum. La lotta si trasforma in un massacro. Combattenti e civili inermi sono trucidati senza pietà e il santuario, razziato, viene incendiato e distrutto. È il 28 agosto, una data funesta che rimarrà impressa nell’immaginario del popolo ebraico.