Ancora oggi le lacrime di Obama colpiscono: da espressione privata delle emozioni più intime tipicamente femminile, le lacrime sono state sdoganate e vengono versate pubblicamente sempre più spesso anche dai maschi. Certo è cambiato il modo di pensare, ma oggi, soprattutto per le persone in vista, il pianto è diventato un mezzo per esprimere umanità
Molti di noi li ricordano ancora le lacrime di Obama. Era il 2017 quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’America, al centro convegni McCormick Place di Chicago, non riuscì a trattenere il pianto commemorando le vittime della strage della scuola elementare Sandy Hook di Newtown, Connecticut, durante la quale un killer uccise 27 persone tra alunni e insegnanti. Oggi ormai il pianto sembra essere sdoganato: da espressione privata delle emozioni, i mezzi di comunicazione lo hanno reso accettabile perché conferisce umanità ai personaggi in vista.
La prima comunicazione
Del resto il pianto è il primo atto di comunicazione: piangiamo appena abbandoniamo la pancia della mamma. Studi recenti spiegano che già durante la gestazione il feto mostra con!gurazioni facciali che somigliano a un pianto, spesso indice di disagio. Secondo le teorie dell’attaccamento sviluppate negli anni Cinquanta dallo psichiatra americano John Bowlby, il pianto svolge un ruolo fondamentale per attivare le cure genitoriali: il bimbo piange prima di tutto quando percepisce l’assenza della madre. Non a caso parliamo di una “sirena biologica”, cioè di uno strumento di segnalazione al quale nessun adulto riesce a sottrarsi. Il pianto di un neonato, estremamente intenso rispetto alle esigue dimensioni corporee, è infatti in grado di alterare la frequenza cardiaca di un adulto che lo ascolta. Il pianto dei bimbi è quindi naturale e, anzi, segno di buona salute. Nei neonati prematuri è spesso meno intenso proprio perché questi bambini non dispongono ancora delle energie necessarie per emetterlo con vigore. È vero però che anche un pianto eccessivo è patologico: per quel 20 per cento di bambini che presentano pianti persistenti è dimostrata, secondo una ricerca del 2011 pubblicata dagli Archives of Disease in Childhood, una maggiore probabilità di sviluppare problemi psichici da adulti.
Così chiamiamo la mamma
Tutti i cuccioli di mammiferi emettono versi per chiamare la madre, ma quando crescono non lo fanno più, ha chiarito in un’intervista Ad Vingerhoets, psicologo presso l’Università di Tilburg (Paesi Bassi). Nel frattempo continuiamo a farlo tutta la vita: il pianto per la separazione dalla madre si presenta identico per tutte le altre separazioni che affrontiamo, come un lutto o la fine di un amore. Da adulti è uno strumento di comunicazione potente che precede la parola. Per il pianto il linguaggio non serve. Anzi, lo rende superfluo: se scoppiamo a piangere, non riusciamo più a parlare. Ma può essere persino segnale di gioia: secondo uno studio pubblicato su Psychological science da Oriana Aragon della Clemson University (Usa), le lacrime di felicità servono a bilanciare le emozioni, cioè a riportarci a una situazione di normalità contrapponendo alla gioia di una risata qualcosa di segno opposto come appunto il pianto.
C’è chi lo faceva per mestiere
Molti riti fanno uso delle lacrime come strumento catartico: pensiamo alla tradizione delle prefiche, donne che nell’antichità (e, nel nostro Sud, anche in tempi più recenti) venivano pagate per piangere disperate ai funerali. Del resto, l’antropologo inglese Ashley Montagu sosteneva che piangere non contribuisce solo alla salute del singolo, ma anche a quella dell’intera comunità perché rende più profondo il legame con gli altri. Infatti se vediamo qualcuno piangere, viene da piangere anche a noi per empatia. Il “contagio” del pianto è un fenomeno che si manifesta molto precocemente: diversi esperimenti hanno dimostrato come facendo ascoltare a un neonato, a poche ore dalla nascita, il pianto di un altro neonato anche lui si metta a piangere.
Tutta colpa della prolattina
Secondo uno studio condotto da Oren Hasson, biologo alla Tel Aviv University (Israele), il pianto migliora la coesione sociale anche perché è un segnale di sottomissione. Piangendo, infatti, cerchiamo di smorzare l’aggressività altrui mostrando la nostra debolezza. Ma è proprio vero che le donne piangono più degli uomini? Il testosterone tende a inibire le lacrime, mentre la prolattina, più presente nelle donne, le favorisce. Questo spiega perché in media le donne piangono circa cinque volte al mese contro una sola volta per gli uomini. Alla base della differenza potrebbe esserci la necessità femminile di esercitare, attraverso le lacrime, potere sull’uomo: le lacrime delle donne contengono sostanze capaci di ridurre l’eccitazione sessuale maschile e la produzione di testosterone, pertanto da un punto di vista evolutivo le donne ricorrerebbero al pianto anche per respingere le aggressioni sessuali.
Cambiano le regole culturali
I maschi invece sono condizionati da modelli di virilità contrari al pianto. Oggi però non è cosi raro che un uomo si conceda le lacrime. Le regole non scritte che modulano l’espressione delle emozioni si modificano continuamente e negli ultimi anni i modelli culturali maschili hanno subito mutamenti profondi. È anche vero che nei reality assistiamo a un eccesso di lacrime in pubblico. Ma questa è un’altra storia: il pianto attira l’attenzione e fa vendere.
Così produciamo le nostre lacrime
Il pianto nasce nel mesencefalo, dove viene stimolata la produzione di lacrime da parte delle ghiandole lacrimali (principale e accessorie). Contemporaneamente il sistema nervoso centrale attiva una respirazione intensa che provoca i tipici lamenti a singhiozzo, mentre il battito cardiaco si fa più veloce e la pressione sanguigna cresce. La glottide, parte intermedia della laringe, si espande dandoci la classica sensazione di “groppo in gola”. Oltre a quelle del pianto esistono anche le lacrime basali, cioè la costante lacrimazione che lubrifica cornea e palpebre, e quelle riflesse, secrete in risposta a stimoli irritanti come il fumo o la cipolla. Bruciore o la sensazione di avere un corpo estraneo nell’occhio sono i sintomi più frequenti di una scarsa lacrimazione, spesso legata all’uso prolungato di pc e smartphone: quando siamo concentrati su un monitor diminuiamo infatti la frequenza con cui sbattiamo le palpebre (il cosiddetto ammiccamento) e ciò comporta una minore lubrificazione della superficie oculare.
Piangendo riusciamo a manipolare gli altri
Lo dimostra una ricerca pubblicata sul Journal of applied psychology secondo la quale le manifestazioni di tristezza servirebbero ad aumentare il potere di negoziazione con l’interlocutore. Studiosi della Essec Business School di Parigi hanno analizzato le interazioni tra 232 studenti intenti a contrattare con i loro compagni. Un membro di ciascuna delle coppie coinvolte era stato istruito a esprimere tristezza durante il serrato dialogo. Risultato: i partner ignari cedevano più facilmente alle richieste di chi piangeva. In altre parole, il pianto ci induce a provare compassione e comprensione. Del resto, già a partire dagli otto mesi di vita il bambino inizia a piangere deliberatamente, con il preciso intento di attirare l’attenzione oppure di ottenere qualcosa che in quel momento lo attrae.
Perché piangere ci fa sentire meglio?
«Circa l’85 per cento delle donne e il 73 degli uomini dichiara di sentirsi meglio dopo aver pianto», ha scritto William H. Frey, autore di Crying: the mystery of tears (Pianto: il mistero delle lacrime), secondo il quale le lacrime permettono al corpo di scaricare ormoni come la corticotropina, la cui eccessiva presenza nel sangue è segnale di stress. Ma Robert Provine, neuroscienziato all’Università del Maryland (Usa), ne dubita: «Se fosse quello il loro scopo, una sudata sarebbe più efficace», scrive lui. È invece più plausibile che il benessere dopo il pianto derivi dalle endorfine rilasciate dall’organismo. Il pianto richiede un grande dispendio di energie, e lo sfinimento quando smettiamo può dare la sensazione di aver scaricato la tensione accumulata.