Mentre la politica si accapiglia sul reddito di cittadinanza, le ricerche ci dicono che a un livellamento generale preferiamo le differenze economiche. Purché uno se le sia davvero meritate
Ormai in Italia il reddito di cittadinanza è ormai una realtà. Tra gli obiettivi del provvedimento c’è senz’altro quello di diminuire il gap economico tra le famiglie più povere e quelle più benestanti. Ma anche tra gli esperti c’è discussione: non è detto infatti che, così facendo, la distanza dai più ricchi diminuisca, riducendo le disuguaglianze, perché bisogna vedere di quanto nel frattempo si arricchisce la fascia più benestante. Colmare le differenze sociali, insomma, non è così facile. Anche perché gli squilibri sono vistosi: nel nostro Paese il 20% più abbiente della popolazione possiede il 72% della ricchezza totale (dati Oxfam 2019). E di solito a un italiano che nasce in una famiglia a basso reddito servono 5 generazioni per arrivare a far parte della fascia alta (dati OECD 2019, vedi disegno nelle prossime pagine).
REDDITO O RICCHEZZA
Davanti a queste scandalose disparità, però, innanzitutto occorre chiedersi: che cosa, precisamente, va combattuto? I dati sulle disuguaglianze sociali infatti fanno riferimento a due concetti, che però sono diversi: il reddito e la ricchezza. I cosiddetti “redditi disponibili” sono quelli determinati dalle entrate di una famiglia (come uno stipendio, la pensione o un sussidio), meno le tasse, diviso per il numero di membri della famiglia. Ecco, in questo caso potremmo decidere che sono inique le eccessive disparità di remunerazione. È giusto, per esempio, che l’amministratore delegato di un’azienda americana guadagni in media quasi 350 volte lo stipendio di un suo operaio? D’altra parte, se consideriamo invece il “patrimonio” di una persodi na, fatto dei suoi beni, delle rendite derivate da investimenti o dall’affitto di beni di proprietà, potremmo arrivare a conclusioni differenti. È giusto allora che, come si è chiesto Warren Buffett, il terzo uomo più facoltoso del mondo, «in proporzione la sua segretaria paghi più tasse di lui»? Eppure avviene. Non solo in Usa: anche in Italia chi riceve un buono stipendio, di cui magari vive, paga su di esso un’aliquota del 43%, mentre un “disoccupato” che investe in Borsa il patrimonio di famiglia paga sulle rendite azionarie il 26%.
Altrettanto iniquo, poi, è un fenomeno che gli economisti conoscono bene: chi gode sugli altri di un vantaggio economico iniziale, anche piccolo, lo vede rapidamente moltiplicato, prosperando sempre più. È il cosiddetto “effetto San Matteo”, come lo ha battezzato nel 1968 il sociologo americano Robert K. Merton, padre del Nobel per l’economia Robert, partendo da un versetto del Vangelo: “A chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (MT 13,12).
In effetti, la forbice delle disparità si allarga progressivamente, al punto che nel solo 2018 i più fortunati hanno accresciuto la loro ricchezza del 12%; i più poveri invece hanno diminuito le loro risorse dell’11%.
PREFERIAMO L’EQUITÀ
Eppure, hanno scoperto gli scienziati, non saremmo felici di eliminare ogni differenza e diventare tutti uguali. Al contrario: secondo uno studio effettuato nel 2011 dallo psicologo americano Dan Ariey su 5.500 persone, la maggioranza ritiene che una società con grandi disuguaglianze sia preferibile a una basata sulla completa uguaglianza (sul modello delle ex repubbliche sovietiche, per intenderci).
Al tempo stesso, però, molti studi dimostrano che gli esseri umani hanno un’innata predilezione per la distribuzione equa: al punto che i bambini di pochi mesi, in modo simile a quanto avviene tra le scimmie, protestano quando si vedono dare meno di un compagno. È quella che gli studiosi chiamano “avversione alla disuguaglianza”: una ripugnanza che è probabilmente effetto dell’evoluzione, e risale a quando gli individui più disposti a una buona suddivisione delle risorse avevano più chance di sopravvivere rispetto a quelli che non lo erano.
Ma come si spiega allora la contraddizione tra il rifiuto delle disuguaglianze, da un lato, e quello della totale uguaglianza dall’altro? Con il fatto che il nostro rifiuto va non alla disuguaglianza di per sé, ma a quella “ingiusta”: in altre parole, le persone accettano le differenze se le giudicano meritate. Lo confermano altri test, effettuati da due docenti di psicologia, Patricia Kanngiesser e Felix Warneken, nel 2013, da cui emerge che i bambini protestano quando ricevono una ricompensa minore di un altro: ma quando viene insegnato loro che a uno sforzo maggiore (per esempio nel raccogliere delle monete) corrisponde una ricompensa maggiore, tutti accettano quietamente di ricevere quantità diverse.
Analogamente, nessuno si lamenta se una scrittrice del talento di J. K. Rowling, l’autrice della saga di Harry Potter, o un imprenditore come Elon Musk guadagnano cifre iperboliche.
Le loro doti straordinarie, al contrario, ci rassicurano sulla correttezza del meccanismo di ascesa sociale: ci dicono che possiamo emergere anche noi, se ce lo meritiamo.
ASCENSORE SOCIALE BLOCCATO
Ma il punto è: è davvero così? Perfino negli Stati Uniti, dove è nato il mito del self made man, la verità sembrerebbe un’altra: gli economisti dell’Università di Berkeley Ross Levine e Yona Rubinstein nel 2013 hanno esaminato le caratteristiche degli imprenditori Usa. Ebbene, secondo i due ricercatori, chi emerge davvero sono soprattutto i maschi bianchi con un’ottima istruzione universitaria. Ovvero, persone che vengono da contesti privilegiati. Secondo lo studio, un aumento di 100 mila dollari nelle entrate familiari equivale a un incremento del 50% delle chance di fondare una società. Il che ha anche senso: se uno sa di avere una rete di protezione, è più incline a lanciarsi in un’impresa. E se un giovane non ha l’ansia di lavorare per mantenersi, trova il tempo di sviluppare nuove idee. Ma il successo degli imprenditori non si spiega solo con il coraggio o il talento, bensì anche con i risparmi di famigliari e amici dai quali, secondo il Global Entrepreneurship Monitor, proviene più dell’80% dei fondi per nuove startup. Forse, se lo stesso Jeff Bezos, oggi l’uomo più ricco del mondo, non avesse potuto contare su un prestito da 250 mila dollari ricevuto dai genitori, non avrebbe mai fondato Amazon.
POSSIBILI RIMEDI
Per ristabilire l’equilibrio, il docente ha redatto, insieme ad altri studiosi, un Manifesto contro le disuguaglianze che suggerisce vari rimedi, di cui alcuni a costo zero. Si va dalla liberalizzazione di certi settori, come farmacie e trasporti, all’“obbligo” per le banche di finanziare progetti sulla base della loro potenzialità invece che delle garanzie fornite. In più, le proposte prevedono il mutamento delle norme sulla proprietà intellettuale, che ora impediscono la nascita di nuove imprese che integrino brevetti già esistenti, e l’introduzione di imposte di successione (oltre una data soglia). La conseguente redistribuzione delle risorse serve in primo luogo a favorire le persone svantaggiate, ma anche a evitare che la concentrazione smisurata della ricchezza provochi violenze sociali contro i più facoltosi. Altrove, si sta pensando anche a misure molto più severe: come la tassa del 70% sui guadagni superiori ai 10 milioni di dollari che di recente è stata presentata al Congresso Usa dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, astro dei Democratici, e rilanciata dal New York Times in un editoriale dal titolo “Aboliamo i miliardari”. Tralasciando il dettaglio che, secondo i critici, il suo principale effetto sarebbe quello di indurre i facoltosi a nascondere i propri guadagni in conti offshore, la proposta americana rischia di far perdere di vista l’obiettivo: che è quello di costruire una società con una giusta disuguaglianza, non con una ingiusta uguaglianza. Insomma, più che punire le persone agiate, occorre capire perché lo sono. Ovvero, se i meccanismi che le hanno portate a guadagnare siano davvero “meritocratici” o, in caso contrario, come correggerli, aiutando altri a emergere. In fondo, noi non desideriamo abolire i miliardari, ma diventarlo anche noi. O perlomeno scoprire che si sono meritati le loro fortune. La cosa peggiore, invece, sarebbe se, come scriveva Ernest Hemingway, la sola differenza tra noi e i ricchi, restasse “che loro hanno più soldi”.