Alzi la mano chi non ha mai pensieri malevoli nei confronti degli altri. Siamo cattivi? No, secondo gli psicologi. Quei lampi di crudeltà che ci attraversano la mente non sono segno della nostra pochezza, ma un modo istintivo di farci giustizia e di alleggerirci, momentaneamente, di un disagio
Un collega ha ottenuto un incarico a cui aspiravamo. Il nostro primo pensiero? Speriamo lo svolga male. La squadra avversaria perde una partita? Esultiamo. Vediamo qualcuno che fa un capitombolo e ruzzola a terra? Lo troviamo esilarante. Capita a tutti di fare cattivi pensieri. Magari poi ce ne vergogniamo, ma lì per lì la nostra mente non elabora la malvagità della riflessione e il cattivo pensiero prende il sopravvento. Alcuni di questi pensieri nascono da eccessive preoccupazioni e ansia legate a eventi del passato che ci portiamo dentro. Rapporti difficili sul lavoro, incomprensioni con i familiari e liti con il coniuge, ma anche discussioni con cari amici: se queste situazioni rimangono in sospeso, creano una sensazione di malessere dalla quale è facile che scaturiscano cattivi pensieri.
Quando elaboriamo un cattivo pensiero entra in gioco un senso di giustizia istintivo. Parlando per esempio dei pensieri che nascono dall’invidia, essi scaturiscono da un narcisismo ormai diffuso nella nostra società: pensiamo di aver diritto a tutto e se non lo otteniamo, allora anche gli altri non possono meritarlo. Ci sentiamo lesi e desideriamo che il malessere venga avvertito anche da chi ci ha fatto uno sgambetto.
La libertà di pensar male
Si tratta di una strategia di “protezione” personale. Il collega si è preso il nostro incarico, il partner ci ha lasciato, il vicino ha vinto la lotteria: ci sembrano situazioni ingiuste e non possiamo farci nulla. Nella testa scatta la riflessione: non posso fare nulla per migliorare la mia situazione? Allora deve andare male anche ad altri e ho la libertà di poterlo pensare. A ciò va aggiunto anche un desiderio di condivisione: non ci vogliamo sentire soli in un momento di sconforto e inconsciamente speriamo che capiti anche ad altri, così da sentirci parte di uno stesso malessere. C’è da preoccuparsi se ci viene un pensiero cattivo? No. Pensare che capiti qualcosa di brutto a qualcuno non significa che desideriamo realmente quella disgrazia. Addirittura può essere utile. Nel momento in cui ci sentiamo disarmati e vittime di un’ingiustizia, il pensiero cattivo rappresenta l’ultima risorsa disponibile e ci fa sentire, anche se momentaneamente, meglio. È importante, però, fare delle distinzioni: se si tratta di un pensiero come reazione, cioè elaborato in seguito a un torto o a una situazione spiacevole, rientra nella natura umana. Se ci accorgiamo che non riusciamo a pensare ad altro e che sottrae tempo ed energie ad altri pensieri più positivi, vuol dire che è un disturbo ossessivo e merita un approfondimento. Un piccolo aiuto per limitare queste riflessioni? Andare a letto presto e regolarizzare il ritmo sonno-veglia. Secondo le ricerche, i pensieri che riversano su altri le nostre frustrazioni sono più frequenti in chi dorme poco o va a letto tardi.
I social fanno la loro parte
Facciamo un altro esempio, che prende spunto dalle cronache: durante una manifestazione per protestare contro l’Expo, Milano è stata messa a ferro e fuoco dai cosiddetti black bloc, che hanno devastato le vetrine, bruciato auto e imbrattato i muri. Lo stesso giorno è stato diffuso un filmato in cui un ragazzo approvava e incoraggiava questi comportamenti. Risultato: insulti, minacce e commenti sul profilo Facebook del ragazzo, una sorta di processo mediatico dove ognuno dava sfogo al suo cattivo pensiero. I social network fanno la loro parte. L’uso di Facebook, in particolare, ha aperto le porte ai commenti, ai gradimenti e alla condivisione continua di ciò che pensiamo. Inoltre, dietro allo schermo, ci sentiamo protetti da una specie di anonimato che ci rende più liberi di esprimere disprezzo e dare sfogo ai nostri pensieri peggiori. Cosa che non faremmo mai di persona. Già, di persona non saremmo così espliciti. Ma perché pensiamo qualcosa di brutto e non lo diciamo? Per merito dell’educazione ricevuta, ma soprattutto delle consuetudini che impone la società, elaboriamo certi pensieri e il più delle volte ce ne vergogniamo. È per questo che rimangono nella nostra testa. Difficilmente andremo dal collega che ha ricevuto l’incarico desiderato anche da noi a dirgli, speriamo che ti vada male. Non vogliamo confessare il nostro lato oscuro perché siamo consapevoli che non corrisponde a ciò che la società ci impone in termini di educazione e rispetto. Conta molto anche l’ambiente e le relazioni che abbiamo vissuto in precedenza. Se siamo cresciuti in un contesto dove ci è stato insegnato che l’invidia è “sbagliata”, di certo non vorremo esporci ed essere giudicati invidiosi. Tutto dipende dai codici e dai criteri che abbiamo appreso nella vita, in riferimento a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ipocrisia? No. Piuttosto consapevolezza che la società ci giudica. Sappiamo di fare qualcosa di sbagliato, ma non vogliamo che gli altri pensino male di noi.
Verdi d’invidia
Si dice “verde d’invidia” perché il sentimento di rabbia, come si credeva un tempo, causa la secrezione della bile, di colore verde. Secondo Richard Smith, psicologo e professore all’Università del Kentucky (Usa), è un sentimento che mai ammetteremmo di provare: «Si tratta di un’emozione socialmente condannata da retaggi biblici che derivano dalla vicenda di Caino e Abele. È un vizio capitale. Esternarla significherebbe ammettere una nostra sconfitta e inferiorità». L’invidia, infatti, viene vissuta spesso in solitudine ed è difficile da ammettere persino a noi stessi. È da notare che colui che invidiamo spesso non fa nulla per sottolineare la sua superiorità in quella determinata occasione e magari l’ha ottenuta pure con merito; ma più noi percepiamo ingiustizia e infondatezza, più l’invidia prende il sopravvento. È infatti la nostra bilancia mentale, che determina che cosa è giusto e che cosa no, che ci fa scattare i cattivi pensieri. Per confermare questa idea, Smith ha messo alla prova un gruppo di persone mostrando loro un filmato che aveva come protagonisti due studenti. Il primo era un ragazzo normale, il secondo otteneva maggiore successo nella vita. Il video si concludeva con la scelta obbligata da parte di entrambi di lasciare gli studi. Al termine della proiezione, gli spettatori si erano mostrati soddisfatti per la sfortuna del ragazzo più popolare. Attenzione, però: l’invidia più accanita è quella che proviamo verso i nostri pari. Come spiega Smith, difficilmente proviamo invidia per Miss Universo o per Bill Gates: «Il meccanismo scatta quando è una persona che ci sta vicino ad aver ottenuto il successo, perché la nostra mente elabora il pensiero che potevamo e dovevamo essere noi a ottenerlo, tenendo in considerazione che avevamo le stesse condizioni di partenza. È il caso, per esempio, di un fratello che prende un voto più alto nello stesso compito in classe. Sappiamo bene che non è colpa sua e che non è stato lui a impedirci di prendere a nostra volta un buon voto, ma nella mente il meccanismo di risentimento è già scattato».
Chi sono i più invidiosi?
Coloro che sono stati educati in base al concetto che il raggiungimento dei propri obiettivi si basa sul confronto con gli altri. Per questo, i bambini cresciuti in questo clima hanno da adulti problemi di autostima e frustrazione per i risultati non raggiunti. Quando nell’infanzia si è abituati a essere confrontati con qualcuno che risulta sempre più bravo e costantemente criticati, spesso si cresce con la sensazione di essere inadeguati e nella convinzione che il confronto sia l’unica misura per affrontare le situazioni. Sì ai modelli, no ai paragoni che creano competizione non sana. Da non confondere l’invidia con la gelosia. La gelosia prevede una terza persona e si sperimenta quando si teme di perdere qualcuno o qualcosa che si possiede. L’invidioso, invece, tende a stabilire la propria identità sulla base di confronti in maniera oppositiva e non costruttiva. Se non si ritiene in grado di raggiungere lo status dell’invidiato, non trova altre soluzioni per colmare il distacco se non quella di disprezzarlo, sminuirlo e augurargli il male. Non solo gli esseri umani provano invidia: in base a una ricerca condotta sulle scimmie dallo psicologo John Portmann dell’Università della Virginia (Usa), i primati che durante l’esperimento ricevevano un chicco d’uva invece di una fetta di cetriolo venivano isolati dagli altri, che mostravano un atteggiamento aggressivo: «Anche noi uomini non ci accontentiamo e se qualcuno ottiene più di noi; tendiamo a pensare in modo negativo, anche se non ha fatto nulla di male. Come le scimmie dell’esperimento, se non possiamo ottenere il meglio, non ci accontentiamo della seconda scelta», dice Smith.
Ciò che è “diverso” fa paura
Vediamo qualcuno con indosso un vestito trasandato e immediatamente lo cataloghiamo come “barbone”. Non si tratta solo di un pregiudizio, ma di un meccanismo mentale che scatta per istinto di conservazione. Se vediamo qualcuno che non rispecchia i nostri canoni di identità, ci sentiamo minacciati. Addirittura si attiva la paura di venire “contaminati” da chi è diverso. È un istinto primordiale quello che ci porta a catalogare cose e persone e in base a questa selezione ci orientiamo nel mondo: non vogliamo circondarci di persone differenti da noi perché ciò che non ci somiglia fa paura, quindi lo valutiamo negativamente. Come al solito non esprimiamo il nostro pensiero, perché i pregiudizi e le discriminazioni sono socialmente condannati.
Innocue fantasie?
Ancora. Tradire con il pensiero capita a circa metà delle persone, sia uomini sia donne. In pochi però lo ammettono, convinti che non si tratti di un vero e proprio tradimento. Può essere un campanello d’allarme per la stabilità della coppia? No, elaborare pensieri su un’altra persona non è il segnale che la coppia sta scoppiando, soprattutto se succede dopo tanti anni insieme: scatta solo il desiderio di dire basta alla monotonia o magari la necessità di nuovi stimoli in un momento di insoddisfazione. Difficilmente riveleremo al partner il “cattivo” pensiero, proprio perché siamo i primi a condannare l’atteggiamento. Si parte sempre dal principio che il nostro desiderio è quello di essere accettati e stimati dagli altri. Come possiamo aspettarci che pensino bene di noi se siamo i primi a comportarci in modi non condivisibili?. E che dire di quando arriviamo a provare un autentico sollievo per la morte di un nostro caro? Non si tratta di egoismo, se il pensiero fa seguito a una lunga malattia che ha implicato molto tempo trascorso ad accudire un familiare. Il dolore c’è e rimane, ma è nella natura umana desiderare autonomia e libertà. Tuttavia, ci vergogniamo di esprimere questo pensiero di liberazione perché ci sembra crudele e magari diciamo, per riequilibrare la riflessione negativa, che il morto “ha smesso di soffrire”.
Crudeli? No, umani
Un ultimo caso: un uomo corre per prendere l’autobus, piove, inciampa, cade, faccia nella pozzanghera. Nulla di grave, ma ci scappa da ridere: l’istinto, vedendo qualcuno a terra ed elaborando velocemente che non è successo niente di tragico nella caduta, è prima quello di sghignazzare e poi di tendergli la mano. Crudeli? No, umani. È l’imprevisto che ci fa ridere e cioè il fatto che stiamo assistendo a qualcosa di inaspettato in grado di sorprenderci. Si tratta di retaggi infantili. Da piccoli, la sorpresa e tutto ciò che era buffo e goffo ci portava a sorridere: un comportamento che ci è rimasto dentro anche da adulti.