Da Giuda a Badoglio, da Bruto alla «Vittoria Mutilata», dai regicidi all’ultima guerra in Libia, la storia è una interminabile sequenza di pugnalate alla schiena. Ma il giudizio sui tradimenti è davvero così scontato? Ci sono infatti anche le ragioni dei traditori, che posti in un’altra luce a volte vengono considerati invece degli eroi. C’è poi spesso la ragion di Stato, che spinge le nazioni verso un «sacro egoismo» che porta alla necessità di sconfessare trattati o a ribaltare alleanze. E, soprattutto, c’è la coscienza non sempre pulita di chi accusa gli altri di tradire ed è stato a sua volta promotore dei peggiori voltafaccia
In principio erano Giuda, Bruto e Cassio, nella dantesca Giudecca, il più profondo buco dell’Inferno. Poi, Cassio è finito nel dimenticatoio, Bruto è diventato sinonimo di violenza cieca e a far coppia con il traditore per eccellenza è arrivato, per noi italiani, Badoglio. Ma la storia dei traditori e dei tradimenti non comincia certo coi trenta denari di Giuda. Dai mancatori di parola a coloro che consegnano una città, un esercito o un individuo ai suoi nemici (che poi è il significato etimologico della parola «tradire», cioè «consegnare» in latino) l’intera storia dell’umanità è una sequenza interminabile di pugnalate alle spalle. Vere o presunte.
Confinato tradizionalmente nel fango della Storia, il tradimento è considerato ambiguamente, a seconda di chi poi racconta gli eventi. Il tradito vedrà nel traditore l’abominio, mentre chi ne gode i frutti sarà indulgente: la linea che separa il «volgare traditore» a cui non spetta altro che una scarica alla schiena e il «benemerito alla causa» decorato al valore è sottilissima, e passa normalmente per chi ha vinto o perduto. Non c’è dubbio che Efialte di Trachis, il pastore che indicò ai Persiani la strada fra i monti per aggirare alle spalle i Trecento di Leonida alle Termopili, nel 480 a.C., merita nell’immaginario collettivo europeo un posto vicino a quello di Giuda. Ma se la sua vicenda fosse descritta da uno storico persiano, Efialte passerebbe per un leale suddito del Re dei Re, che con sprezzo del pericolo condusse un manipolo di coraggiosi in un’astuta e rischiosa azione d’accerchiamento. Un servizio che comunque costò la vita al pastore, raggiunto ben presto dalla vendetta dei «ribelli greci», che sulla sua testa avevano posto una taglia.
La Grecia classica era entrata in proverbio come terra degli infidi, secondo i Romani: «timeo Danaos et dona ferentes», ho paura dei Greci anche se portano regali. La vicenda di Alcibiade (450-404 a.C.) è un continuo susseguirsi di cambi di casacca e passaggi al nemico. Fra i più dotati uomini di Atene, Alcibiade portò avanti delle politiche interne spregiudicate, cambiando partito secondo le convenienze. Travolto da uno scandalo orchestrato dai suoi avversari, Alcibiade passa al nemico: si rifugia a Sparta e ne diventa un importante stratega, promettendo infatti «di rendere loro aiuti e servigi in modo ancor più determinante di quando non avesse causato loro difficoltà da nemico», scrive Plutarco. Tucidide racconta del ragionamento sofistico con cui Alcibiade giustificò presso gli Spartani il suo salto di trincea: non era lui ad aver abbandonato la patria, ma la patria che l’aveva costretto a di ventare suo nemico. La storia è piena di «fuoriusciti» passati al nemico per aver subito offese personali, la cui memoria è tramandata fra gli esempi positivi se vittoriosi, o additata fra gli infami quando sconfitti. Circa un secolo prima del voltafaccia di Alcibiade, a Roma si era consumata una storia simile, quella di Gneo Marcio Coriolano, eroe di guerra ma sconfitto nell’agone politico della giovane repubblica romana, che decide di vendicarsi passando al nemico, la città volsina di Anzio. Nel 488 a.C. Coriolano guida una brillante campagna militare contro Roma, arrivando quasi sul punto di annientare l’Urbe. Proprio in vista delle mura della città l’esercito comandato da Coriolano venne affrontato dalla madre Veturia e dalla moglie Volumnia, con in braccio i due figlioletti. Veturia, sottraendosi all’abbraccio di Coriolano, lo respinse: «dimmi prima se vedo un figlio o un nemico, e se sono una prigioniera o una madre», avrebbe detto secondo il racconto di Livio. L’incontro toccò il cuore del generale romano, che rinunciò alla guerra con la sua antica patria. Doppio traditore, per i suoi concittadini e per coloro che l’avevano accolto e a cui aveva tolto la vittoria totale su Roma per un soffio: infatti, pare che Coriolano abbia finito i suoi giorni in esilio oppure che gli stessi Volsci lo abbiano giustiziato.
Al limite fra età del mito ed età storica, questi personaggi giganteggiavano tuttavia agli occhi dei contemporanei per la dimensione tragica delle lacerazioni umane che li accompagnavano. Non a caso erano i soggetti preferiti dei drammaturghi e lo sono stati fino a tempi recenti, quando l’appiattimento infantile alla dicotomia «buono-cattivo» ha tolto profondità al giudizio storico. Basti pensare – facendo un salto indietro nel tempo – alla vicenda del ritorno di Agamennone, re degli Achei, a Micene e del doppio tradimento che lo porta alla sua ingloriosa morte: quello verso sua moglie Clitemnestra, già furibonda perché Agamennone aveva sacrificato la figlia Ifigenia per propiziare la partenza della flotta greca contro Troia, dieci anni prima, e che poi se lo vede tornare a casa con una bella schiava, la nobile e sfortunata Cassandra. Ma Clitemnestra, a differenza di Penelope a Itaca, non era rimasta fedele a suo marito, nei dieci anni di assedio a Troia, e s’era fatta l’amante, Egisto. Così i due orchestrano il regicidio, e Clitemnestra assassina Agamennone nella sua vasca da bagno a colpi d’ascia aggiungendo un anello alla catena di morte, rancore e persecuzione delle Furie che le tragedie greche hanno tramandato per i tre millenni successivi.
Anche l’omicidio di re e tiranni è variamente considerato dalla Storia, Eroi per alcuni, vili traditori (o terroristi, come si dice oggi) per altri, i regicidi sono figure che lasciano spesso interdetti. Ad Atene le statue di Armodio e Aristogitone erano capolavori artistici che celebrano tanto il passaggio dalla tirannide alla democrazia quanto dall’età arcaica a quella classica. Sebbene la vicenda dei due ateniesi sia meno edificante di quanto vogliano far credere i marmi attici (la politica e gli ideali c’entravano poco: Armodio era l’amante di Aristogitone, e Ipparco, tiranno di Atene, cercò di sedurlo scatenando una vendetta per gelosia che lo condurrà alla morte), l’episodio venne in seguito nobilitato come antefatto del passaggio alla democrazia di Atene, avvenuto quattro anni dopo, nel 510 a.C. Meno bene andrà alle figure di Bruto e Cassio, che cinque secoli dopo saranno a capo della congiura che eliminò Giulio Cesare, nel a.C. Passati rapidamente dal lato dei patrioti a quello dei traditori per la sconfitta sui campi di battaglia della causa repubblicana, sono divenuti per secoli eponimi del tradimento. Le parole di Cesare davanti al pugnale del figlio adottivo Bruto – «quoque tu, fili mi!», «anche tu, figlio mio!» – sono ormai sigillo d’ogni tradimento venuto allo scoperto. Il ghibellino Dante, come detto all’inizio, nella Divina Commedia li piazza in fondo all’Inferno, assieme al traditore del Cristo, Giuda. Con il passare dei secoli il regicidio, o tentato regicidio, è diventato uno dei reati di tradimento più ferocemente puniti, e i supplizi cui sono stati sottoposti coloro che avevano tentato d’alzare l’arma contro il loro sovrano toccavano il vertice della crudeltà: ad esempio in Francia Ravaillac (che uccise Re Enrico IV il 16 maggio 1610) e Damiens (che cercò invano di assassinare Luigi XV il 5 gennaio 1757), furono torturati per ore prima d’essere finalmente decapitati, oppure Balthasar Gérard in Olanda, regicida di Guglielmo I d’Orange nel 1584 ‑, il cui supplizio durò addirittura più giorni. In questi casi lo squartamento era il minimo che potesse capitare al traditore, pena che – usualmente – oltralpe si praticava sul condannato ancora vivo. Pietro il Grande, davanti alla rivolta dei reggimenti di moschettieri degli Strelizzi (Strel’cy) del 1698 ‑ contro la sua persona non esita a mettere in scena una delle più spietate e sanguinose repressioni mai viste: quasi 1200 sediziosi vennero massacrati (a volte assieme ai familiari) nei modi più feroci sulla Piazza Rossa, e i cadaveri dei giustiziati vennero appesi davanti alla finestra della sorella dello Zar, Sofia, che aveva sobillato il tradimento. In Inghilterra dopo la riforma protestante i cattolici vennero considerati in blocco traditori della Corona, visto che il sovrano era il capo della Chiesa anglicana, e le condanne alla pena del «trascinamento, appendimento e squartamento» (drawn, hanged and quartered) – che chi ha visto il film di Mel Gibson «Braveheart, cuore impavido» può ben immaginare, anche se nel film dura molto meno che nella realtà – divennero estremamente frequenti contro preti, gesuiti e altri «papisti», tutti equiparati a sediziosi meritevoli della peggiore delle esecuzioni. Un altro caso storico in cui il tradimento è un Giano bifronte: spregevoli nemici dello Stato per gli anglicani, martiri della Fede per i cattolici.
Dove il tradimento è quasi sempre protagonista è la storia della guerra d’assedio. Fino all’avvento delle armi moderne, mura e fortezze sono risultate sempre ossa molto dure per i denti dell’attaccante, e – fa notare Franco Cardini nel suo «Quell’antica festa crudele» (Mondadori) – la gran parte degli assedi si concludeva con una vittoria per l’assediante solo se una «quinta colonna» interna apriva un varco. Escludendo dal novero dei tradimenti lo stratagemma del Cavallo di Troia, le città cadute per tradimento sono innumerevoli. Già lo stratega peloponnesiaco Enea Tattico (IV sec. a.C.) nel suo trattato «Poliorcetica» dedicava un intero capitolo a come sopravvivere ai tradimenti interni alle città durante gli assedi. La mancata parola era poi un’altra delle spiacevoli conseguenze degli assedi: in moltissimi casi i difensori venivano indotti alla resa dalle promesse degli assedianti, che poi non venivano rispettate. Dall’assedio di Numanzia, nel 133 a.C. alla tristissima sorte toccata al veneziano Marc’Antonio Bragadin, scuoiato vivo dai turchi suoi nemici a Famagosta nel 1571 dopo essersi arreso sulla parola, la Storia sciorina un bruttissimo elenco di massacri perpetrati ai danni di nemici oramai battuti e consegnatisi alla mercé del vincitore. Ultimo capitolo di questa saga dell’infamia, le centinaia di militi della RSI – fra cui anche decorati di medaglia d’oro al valor militare come Adriano Visconti – che hanno creduto alla parola dei comandanti partigiani e hanno fiduciosamente deposto le armi, finendo poi massacrati spesso dopo una parvenza di processo.
Da Armodio e Aristogitone a Bruto e Cassio per proseguire con Damiens (e nel caso dei regicidi più recenti, Passannante, che cercò di accoltellare Umberto I nel 1878), il gesto fatale viene compiuto spesso e volentieri con un pugnale. E questo, la più antica e la più duratura delle armi, è diventato il simbolo del tradimento. D’altronde il «ferro corto» è ben occultabile e insieme al veleno è l’arma insidiosa per eccellenza. Così che la «pugnalata» è entrata in proverbio in mezzo mondo come l’azione del tradimento per antonomasia. E gli italiani e l’Italia ne sono diventati quasi depositari nell’immaginario collettivo degli altri paesi. Uno stereotipo infamante, che affonda le sue radici nell’infinita teoria di congiure e voltafaccia che hanno insanguinato il Bel Paese per secoli fin dal Medioevo. Certo, non più che in altri paesi, ma da noi l’enorme produzione letteraria ha contribuito a far conoscere al resto d’Europa molti episodi e personaggi: dal conte Ugolino – che Dante colloca fra i Traditori della Patria – al Patto di Rivoltella del 18 ottobre 1448, quando il condottiero Francesco Sforza, dopo aver battuto i veneziani a Caravaggio, accetta l’oro della Serenissima per passare dall’altra parte della trincea, aprendosi la strada verso il titolo di Duca di Milano, per passare all’aneddoto (forse non vero) della feroce uccisione di Francesco Ferrucci da parte di Fabrizio Maramaldo dopo
averne accettato la resa (1530). Un episodio divenuto celebre, tanto che la frase «Maramaldo, tu uccidi un uomo morto» è entrata in proverbio e lo stesso nome ha dato origine all’insulto «maramaldesco» come sinonimo di chi colpisce a tradimento. A questa sequela di episodi poco edificanti, l’Italia aggiungeva anche l’abitudine popolare di risolvere col «ferro corto» le beghe di strada, raccontata dai viaggiatori stranieri del Grand Tour e che – complice anche la straordinaria diffusione dell’opera lirica, con «Tosca» di Puccini, dove il «bacio di Tosca» è appunto la coltellata – continua a essere uno dei cliché con cui viene immaginato all’estero ancora oggi l’italiano medio: gente di coltello. Il combinato disposto di queste suggestioni ha contribuito a far sì che l’Italia apparisse agli stranieri, sempre in cerca di argomenti per denigrare la Penisola, come una congenita «nazione di traditori». Allora nelle rappresentazioni satiriche del Bel Paese di parte austro-tedesca durante la Grande Guerra, l’Italia appare come un bersagliere che pugnala alle spalle l’Impero Asburgico, mentre la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 alla Francia e alla Gran Bretagna è stata descritta dal presidente USA, Franklin Delano Roosevelt come una «pugnalata alla schiena» anche se le più attente ricostruzioni storiche smentiscono nettamente questa interpretazione.
Ma anche quando a fare la parte del traditore (vero o preteso) sono intere nazioni i discorsi non sono differenti da quelli degli individui. Con buona pace di Dante, perfino Giuda e Bruto sono figure a tre dimensioni, che meritano almeno la comprensione: il primo perché, pentito d’aver consegnato al Sinedrio il Nazareno, poi si sarebbe impiccato per il rimorso (inoltre, per la teologia cristiana, il tradimento era necessario perché si compisse il sacrificio della Croce); Bruto perché agì convinto di fare il bene della repubblica, e non certo per tornaconto personale. Per regni, Stati e nazioni le questioni non cambiano. Nel nome del principio «salus reipublicae suprema lex», sono stati infranti patti e accordi sotto tutte le bandiere. I veneziani, gli stessi che avevano offerto denaro allo Sforza per cambiare bandiera, consideravano traditori i genovesi e gli spagnoli che nelle acque della Prevesa, nel 1538, avevano scarsamente impegnato le loro navi, consentendo agli ottomani una vittoria il cui costo fu pagato soprattutto dalla Serenissima. Gli spagnoli, qualche anno prima, avevano ottenuto il controllo dell’imperi degli Inca con l’astuzia e l’inganno: Francesco Pizarro aveva promesso salva la vita all’ultimo imperatore Atahualpa, preso prigioniero, in cambio di un favoloso riscatto di tonnellate d’oro, ma ottenuto il pagamento – siamo nel 1533 – lo fece processare e giustiziare per un presunto tentativo di riscossa anti-spagnola. La conquista del resto del dominio degli Inca fu possibile attraverso la defezione di molte tribù andine, sottomesse con la forza dai predecessori di Atahualpa, che di buon grado videro nei conquistatori una maniera per svincolarsi dal duro governo incaico.
Al di qua dell’oceano, sebbene lealtà e fedeltà fossero valori cortesi particolarmente cari alla civiltà europea, quando a muoversi erano interi eserciti e nazioni, la realpolitik prendeva spesso e volentieri il sopravvento. Eppure voltafaccia e tradimenti potevano avere le più incredibili motivazioni: il 5 gennaio 1761 moriva la zarina Elisabetta di Russia, una tipa tosta, e le succedeva l’imbelle nipote Pietro III. Un cambio di sovrano da un estremo all’altro, che cadeva nel momento culminante della Guerra dei Sette Anni. La Prussia di Federico II era allo stremo, accerchiata da francesi, austriaci, svedesi e russi sui quattro lati. L’ascesa al trono di Pietro cambiò improvvisamente le carte in tavola: ammiratore sfegatato di Federico II e del suo regnocaserma, chiese la pace alla Prussia rinunciando a ogni conquista e offrendo perfino aiuto militare. Un voltafaccia che consentì ai prussiani di volgere a loro favore le sorti di una guerra che sembrava oramai segnata. Se a far cambiare schieramento alla Russia di Pietro III fu la sua smodata e infantile passione per i soldatini e le uniformi, molto più pragmatismo c’era alla base della prassi politica di uno dei traditori più abili e spregiudicati di tutti i tempi, il «sempre a galla» Charles-Maurice de Talleyrand- Périgord (1754-1838). Cardinale di Santa Romana Chiesa, passa dalla parte dei rivoluzionari nel 1789. Caduto temporaneamente in disgrazia, riesce a tornare ai vertici della Francia giacobina entrando nel direttorio e facendo le scarpe (e la moglie…) al ministro degli este ri Delacroix. Fa quindi coppia con un astuto intrallazzatore, Joseph Fouché, e dopo aver favorito l’ascesa di Napoleone, inizia una sua diplomazia parallela coi suoi più acerrimi nemici per accreditarsi presso di loro nel caso che il Còrso avesse perduto la sua buona stella. Nel 1809 addirittura è Talleyrand a suggerire agli austriaci di attaccare il suo paese alle spalle, approfittando dell’impasse delle armate napoleoniche in Spagna. Scoperto e denunciato dal suo «amico» Fouché, viene convocato a Parigi dove il peggio che gli capita è di buscarsi dall’Imperatore l’epiteto di «merda in calze di seta». Quando cinque anni dopo le truppe della coalizione entreranno a Parigi, è a casa di Talleyrand che lo zar Alessandro I verrà ospitato. Il «diavolo zoppo» come era stato soprannominato dai suoi detrattori per una malformazione al piede, sarà ancora dietro il colpo di Stato che detronizza Carlo X nel 1830 per dare la corona a Luigi Filippo d’Orleans. Ernest Renan disse che Talleyrand era riuscito a ingannare il cielo e la terra, perché in punto di morte si era fatto impartire l’estrema unzione come fosse ancora vescovo, nonostante una vita la più lontana possibile dai valori cristiani.
Talleyrand è dunque il nume tutelare di ogni traditore per causa politica. Riuscendo a far coincidere il bene del paese con il suo personale ha fatto del cambio di casacca un’arte, tanto da farsi riconoscere dalla Storia più i suoi meriti che i suoi lati oscuri. Il nuovo secolo si apre dunque all’insegna del più spietato realismo politico. E si apre perfino prima: L’incipit dello «Jacopo Ortis» di Ugo Foscolo inizia con quel famoso «Il sacrificio della patria nostra è consumato», perché lui, come molti altri patrioti veneziani, si considerava tradito dall’accordo fra Napoleone e l’Austria che nel 1797 riduceva Venezia a una mera merce di scambio. Nell’agosto 1807 senza dichiarazione di guerra la flotta inglese attaccò Copenhagen per conquistare o distruggere la flotta danese. La città nordica venne distrutta per un terzo e vi furono migliaia di morti fra i civili nel bombardamento effettuato coi razzi incendiari Congreve. La fine della parabola di Napoleone – oltre a quello di Talleyrand – vede il tradimento di Gioacchino Murat, re di Napoli e cognato dell’Imperatore, che firma un trattato d’alleanza con l’Austria l’11 gennaio 1814 e – pugnalata finale – quella del maresciallo Auguste de Marmont, comandante della guarnigione di Parigi, che assieme ai due colleghi Mortier e Moncey si arrese alle truppe della coalizione aprendo le porte della capitale francese ai nemici di Bonaparte. Marmont disse di aver agito per l’interesse del paese, giudicando ogni ulteriore resistenza solo un inutile spargimento di sangue. Il tradimento però non gli fu perdonato dai contemporanei, e nonostante fosse riuscito a mantenere gradi e comandi anche con la Restaurazione, il suo nome venne macchiato per sempre, tanto che in francese esiste il verbo «raguser», in analogia con il nostro «badogliare», dal titolo di Duca di Ragusa che Napoleone gli aveva conferito.
I cambi di regime sono sempre stati accompagnati da cambi di casacca. Talleyrand ne è il rappresentante più «nobile» (o quantomeno più abile), ma innumerevoli sono gli annali dell’infamia dedicati a personaggi che hanno consegnato ai nemici le teste dei loro sovrani, nella speranza di riciclarsi con i nuovi padroni. Così Gneo Pompeo venne fatto assassinare dai consiglieri del re egizio Tolomeo per ingraziarsi Cesare. Ma il generale romano alla vista della testa del suo nemico non reagì come essi avevano immaginato: pianse l’avversario e si vendicò dei suoi omicidi, facendo giustiziare gli esecutori materiali e deponendo Tolomeo. Sorte ancora peggiore toccò ai satrapi dell’imperatore persiano Dario III che avevano ordito un colpo di Stato contro il Re dei Re durante l’invasione di Alessandro il Grande, nel 330 a.C.: Besso, il loro capo, che si era perfino proclamato nuovo sovrano di Persia, venne catturato e fatto torturare a morte per ordine di Alessandro. Molto meno infame di come viene dipinto da certa storiografia, invece, Liborio Romano, ministro di Polizia del Regno delle due Sicilie che si limitò a consegnare nel 1860 Napoli a Garibaldi, al culmine della spedizione dei Mille: un atto giustificato dalla necessità di favorire un passaggio indolore dei poteri dal regime dei Borbone, ormai liquefatto, a quello dei Savoia e allo Stato unitario che ne sarebbe sorto. Traditore per i canoni della fedeltà dinastica, eroe secondo quelli del patriottismo nazionale.
Con la nuova era inaugurata dalla Rivoluzione francese, infatti, il motto «Salus reipublicae suprema lex» tornava a essere l’insegna di gran parte delle azioni politiche, sostituendo con la fedeltà alla nazione quella dinastica. Il primo ministro sabaudo, Camillo Cavour, poté gridare al tradimento, gettando il proprio mandato ai piedi di re Vittorio Emanuele II perché dopo le vittorie di San Martino e Solferino dell’estate 1859, l’imperatore francese Napoleone III si era accordato con l’Austria per una pace di compromesso senza consultare l’alleato piemontese. Il Conte ebbe poi modo di restituire la pariglia ai francesi (che a onor del vero, avevano a tutta prima rinunciato ai compensi previsti dal trattato di Plombières, consapevoli d’averlo violato per primi), annettendo la Toscana al costituendo Regno d’Italia nonostante l’accordo con Parigi di farne un regno indipendente con sul trono un Savoia. Italia e Francia continuarono a guardarsi in cagnesco per tutto il resto del secolo. Ancora nel 1913 a Pirandello bruciava lo schiaffo di Tunisi, quando trent’anni prima, nel 1881, la città «c’era stata presa a tradimento» dai francesi. Dall’altra parte dell’oceano, frattanto, gli Stati Uniti si allargavano a spese degli indiani infrangendo uno dopo l’altro tutti i trattati siglati con le varie nazioni pellirossa. Contro altri indiani (quelli originali), gli inglesi applicarono politiche di divide et impera favorendo congiure e tradimenti fra i nobili del subcontinente, fino a sottometterlo completamente.
Con buona pace dei denigratori – e autodenigratori – dell’Italia, se c’ tradizionalmente un’entità statuale specializzata nei pasticci e nei tradimenti diplomatici quella è l’Inghilterra. Sostenuta dalla propria innata alterigia Londra non risparmiava nemmeno i suoi alleati: il tradimento di tutte le promesse fatte da Thomas Edward Lawrence agli arabi, i cui territori vennero spartiti con riga e squadra dagli accordi anglofrancesi del 1916 è alla base della quasi totalità delle disgrazie che colpiscono il Medio Oriente oggi. E gravido di conseguenze fu anche l’atteggiamento infido nei confronti dell’Italia che – accusata di aver tradito la Triplice Alleanza – venne blandita e convinta a entrare nell’Intesa col Patto di Londra nella primavera del 1915, salvo poi scoprire che gli alleati s’erano già accordati per la spartizione dell’Impero Ottomano e per la costituzione di un regno sud-slavo ai danni dell’Italia. Un tradimento che finì di consumarsi nei saloni di
Versailles nel 1919, quando l’irresoluta delegazione italiana dovette rinunciare a Fiume e alla Dalmazia, oltre che all’egemonia sui Balcani, per la somma delle geopolitiche franco-inglesi e dell’antipatia che il presidente USA Woodrow Wilson nutriva verso il nostro paese. Il peso dell’umiliazione subita dall’Italia non si esaurì nel breve periodo con i torbidi interni e l’ascesa del Fascismo al grido di protesta contro la «Vittoria Mutilata», ma rimasero ben presenti nella mente di Mussolini, che cercò di mantenere – su un piede di parità stavolta – il fronte alleato unito contro il risollevarsi della Germania. Ma ancora una volta fu il tradimento britannico a mandare in pezzi l’ultimo diaframma che separava Berlino dal potersi scatenare di nuovo: nell’aprile 1935, di fronte al riarmo tedesco voluto da Hitler, Mussolini riunì a Stresa i rappresentanti inglese e francese per concordare una linea comune di contenimento della Germania. L’accordo inizialmente sembrò avere successo, ma era minato fin dalle basi dal doppiogiochismo inglese, perché da tempo Londra stava segretamente trattando con Berlino per degli accordi bilaterali. La notizia, diffusa il 18 giugno successivo, di un accordo navale anglo-tedesco fece franare lo «spirito di Stresa» e con esso ogni possibilità ulteriore d’accordo fra le tre potenze. La conseguenza diretta fu l’impegno di Mussolini in Etiopia: consapevole che la guerra mondiale sarebbe stata presto inevitabile, venne pianificata la realizzazione di un impero coloniale che fungesse da retrovia per l’Italia, mettendola in condizioni di affrontare un nuovo conflitto europeo. Anche qua l’Italia si percepì come tradita: le due più voraci potenze coloniali del mondo si coalizzarono per ostacolare l’impresa italiana, imponendo le sanzioni economiche.
Così quando nel giugno 1940 obtorto collo l’Italia entrò in guerra, il suo attacco alla Francia può essere considerato una «pugnalata alla schiena» solo dal punto di vista propagandistico: le relazioni diplomatiche fra Roma e Parigi erano tornate ai minimi storici, il rancore fra i due paesi era forte e la rivalità geopolitica non si era risolta, era semmai perfino peggiorata. E se di tradimento si deve parlare, quello va visto invece nella segreta speranza di Mussolini che le armate dell’ «alleato germanico» fossero fermate dalla Linea Maginot, rompendo così «le zanne alla belva hitleriana», sempre più affamata di vittorie. Una speranza che – una volta sfumata – mise Roma di fronte alla terribile alternativa di doversi sedere a tavola con la Germania oppure finirci presto o tardi sopra come pietanza, nella spiacevolissima situazione di campo di battaglia fra la potenza continentale che scendeva da nord e quella navale che risaliva da sud… Un destino che fu evitato solo per tre anni, poiché nell’estate del 1943 l’Italia oramai esausta firmava l’armistizio di Cassibile passando dalla parte degli Alleati e provocando l’ira della Germania. Un’ira che può essere comprensibile, ma che dovrebbe fermarsi un attimo prima di diventare anche condanna morale. La Germania di Hitler era infatti da due anni in guerra con l’URSS, potenza con la quale era stato firmato un patto d’alleanza nel 1939, e che era stata attaccata nel giugno1941 a tradimento, senza dichiarazione di guerra. Il ministro tedesco Albert Speer ricorda un aneddoto gustoso: nel 1943, fu raccontato al Führer che i funzionari del ministero degli Esteri avevano regalato al ministro Ribbentrop per il suo 50° compleanno un cofanetto istoriato per conservare copie dei trattati firmati dalla Germania. Tuttavia il regalo aveva provocato grande imbarazzo, perché il cofanetto era rimasto praticamente vuoto in quanto non c’era rimasto che un pugno di accordi che il Reich non avesse ancora stracciato. Pare che Hitler ne avesse riso fino alle lacrime.
E se Berlino piangeva (dalle risate), anche le altre potenze, come quelle anglosassoni (che coniarono il verbo «to badogliate» per stigmatizzare la malaccorta uscita dell’Italia dall’Asse) non avevano molto da ridere. Il 3 luglio 1940, dopo la resa di Parigi, la flotta inglese aveva attaccato proditoriamente le navi francesi nella rada di Mersel-Kébir, in Algeria, provocando gravi perdite e 1297 morti fra quelli che erano stati fino a pochi giorni prima alleati. L’anno dopo i servizi britannici aizzarono un colpo di Stato a Belgrado contro l’Asse, mandando al massacro la Jugoslavia con il solo scopo di far impantanare la Germania nel ginepraio balcanico. Nel 1945 di fronte all’ascesa di Tito, poi, non ebbero esitazione nel tradire il governo in esilio che fino ad allora avevano ospitato come legittimo rappresentante della Jugoslavia, per riconoscere invece il Maresciallo quale nuovo padrone del paese e lasciando alla sua vendetta anche tutti gli altri patrioti non comunisti, i cetnici, con in testa il loro capo Draža Mihailovic. Dopo cinque anni di guerriglia antitedesca e poi anticomunista Mihailovic venne abbandonato da inglesi e americani per non rovinare le relazioni diplomatiche con Tito. Una sorte in fin dei conti non diversa da quella di Władysław Sikorski, capo del governo polacco in esilio a Londra, che nel 1943 morì in un misterioso incidente aereo che lasciò sostanzialmente la Polonia – per difendere la quale era scoppiata la Seconda guerra mondiale – nella sfera d’influenza sovietica (che a sua volta l’aveva invasa da est pochi giorni dopo i tedeschi, nel settembre 1939, senza che anglo-francesi o americani dicessero o facessero nulla…). E ancora ai sovietici furono poi sacrificati da Winston Churchill in persona decine di migliaia di esuli cosacchi collaborazionisti, che avevano combattuto contro i partigiani nell’Italia del nord e che – consegnandosi agli inglesi nel maggio 1945 – avevano sperato in un trattamento secondo le convenzioni internazionali che vietano di consegnare i prigionieri a un’altra potenza. I britannici, invece, li abbandonarono ai sovietici, condannandoli a morte sicura nei gulag. Un tradimento che assunse tratti da tragedia epica quando molte donne cosacche preferirono gettarsi nei fiumi e annegare coi figli piuttosto che finire in mano ai commissari del popolo staliniani.
L’età della Guerra Fredda e delle belle parole sotto la bandiera azzurrina dell’ONU non chiuse affatto l’era dei tradimenti. Con un nuovo giro di valzer, la fedeltà passava definitivamente dalla nazione all’ideologia e nel nome della «democrazia» (variamente declinata dai suoi alfieri) sono stati commessi nuovi crimini e nuove infamie: dai mercenari delle ex potenze coloniali usati e abbandonati nelle ultime, squallide operazioni nel terzo mondo, ai funzionari sudvietnamiti a cui furono rotte le dita per impedire di aggrapparsi agli elicotteri americani che fuggivano da Saigon mentre arrivavano i vietcong. Dai palestinesi traditi da tutti i loro vicini arabi e usati come armi umane e diplomatiche contro Israele, ai «candidati della Manciuria» usati dai servizi segreti di mezzo mondo per i lavori più sporchi e poi «silenziati» prima che potessero rivelare chi avesse armato la loro mano, ovvero tutti quei sicari come Lee Harvey Oswald impiegato per assassinare Kennedy nel 1963 che poi venne opportunamente fatto fuori poche ore dopo l’arresto. Il trattato di pace imposto all’Italia il 10 febbraio 1947 obbligava all’articolo 16 lo Stato a non perseguire in alcuna maniera i suoi cittadini che negli anni precedenti avessero tramato contro di esso, collaborando col nemico durante la Seconda guerra mondiale. Si trattava in fin dei conti di volenterosi collaboratori dell’ideale democratico, sul cui altare poteva tranquillamente essere sacrificato ogni valore di fedeltà alla nazione, ai compagni d’arme, ai milioni di connazionali al fronte e – per quel che valeva ancora nel XX secolo – alla Dinastia dei Savoia.
Avviandoci a concludere questa carrellata della storia dell’infamia, non si può non citare quello che si avvia a uscire dalla cronaca per diventare un capitolo di un libro di storia: l’attacco delle potenze occidentali alla Libia di Gheddafi nel 2011. Se finora abbiamo assistito a episodi e personaggi per lo più sul bordo del confine fra Bene e Male, fra disonore e cinismo, fra vigliaccheria ed eroismo, questo che è l’ultimo atto (e forse non solo in termini cronologici) della politica estera dell’Italia appare come qualcosa che nella storia del nostro paese non può che passare come una pagina turpe. Spinto dagli alleati euro-atlantici, il governo di Roma si è fatto coinvolgere in una guerra sporca basata su notizie false costruite dalla stampa dei regimi democratici (la stessa che sbraita ad ogni piè sospinto contro le «fake news»). E – quel che è peggio – rinunciando anche a qualsiasi considerazione di egoismo geopolitico. L’attacco a Gheddafi – al quale eravamo legati da trattati di amicizia e di non aggressione – si configura come un tradimento puro e semplice, che sotto nessun punto di vista sembra giustificato da un «superiore interesse nazionale», come tanti dei voltafaccia che abbiamo visto fin ora. Nel 2011 Roma ha fatto solo un inchino davanti alle altre potenze perdendo poi ogni cosa: gli investimenti, le posizioni geopolitiche, l’onore. Questa volta sì, rendendosi responsabile di una pugnalata alla schiena, di cui il paese pagherà le conseguenze per molto tempo ancora.