Pochi conoscono questo pioniere dell’Ottocento, omonimo del più noto attore che sposò Liz Taylor. Eppure raggiunse luoghi in cui nessun occidentale aveva messo piede, imparò 40 lingue e scrisse 43 libri. Poi tradusse libri erotici orientali, generando in Inghilterra un enorme scandalo
A metà Ottocento il cuore dell’Africa era ancora un buco nero, La Mecca e l’interno dell’Arabia erano quasi incognite agli occidentali e intere zone dell’Asia e delle Americhe aspettavano di essere scoperte. «È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo», pensò un giovane inglese di nome Richard Francis Burton, che decise di partire in esplorazione per riempire, lui da solo, tutti i vuoti delle carte geografiche. Attraversò foreste e deserti, scoprì laghi e sorgenti, entrò per primo in città proibite e strada facendo imparò 40 lingue e dialetti, pubblicò 43 favolosi libri di viaggio, tradusse Le mille e una notte, e curò edizioni del Kama Sutra e di altri capolavori erotici dell’Oriente, proponendoli al pubblico per la prima volta in versione integrale. Insomma, fu un vulcano in perenne eruzione.Quest’anno si celebra il bicentenario della sua nascita, avvenuta a Torquay, nel Devon, il 19 marzo 1821; di lui va segnalato anche lo speciale legame che ebbe con l’Italia, dove trascorse l’ultimo quarto di vita come console britannico a Trieste. Qui la morte lo colse il 20 ottobre 1890.
Era un rom?
Lo spirito nomade di Burton avrebbe potuto anche esprimere la voce del sangue, ammesso che esista qualcosa di simile; nel mondo anglosassone il cognome Burton è infatti diffuso fra le persone di origine gipsy (termine inglese che significa “nomade”). Nel suo caso non sono documentate ascendenze dirette, ma era lievemente scuro di carnagione, aveva un fisico erculeo e occhi che bucavano la macchina fotografica e che da soli bastavano, il più delle volte, a intimorire eventuali avversari. Tutto questo lo rendeva adatto a gettarsi alla ventura nei posti più pericolosi del pianeta. Bisogna aggiungere che in Inghilterra, pur appartenendo a una famiglia agiata, Burton si sentiva un po’ fuori posto: aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza con i genitori per lo più all’estero, ma una volta tornato in patria per iscriversi a Oxford, aveva scoperto che l’ambiente lo soffocava. Così aveva deciso di cercare la sua strada nel vasto mondo.
Cominciò come militare
Per un inglese come lui, c’era una via maestra per inventarsi una vita oltremare: Burton si arruolò al servizio dell’Impero e partecipò alle conquiste britanniche in India, acquisendo una dimestichezza con le armi che gli tornò utile per il resto della vita. Ma fare il soldato e il combattente non era la sua vera vocazione e presto si offrì volontario per missioni più impegnative e sofisticate di esplorazione e spionaggio, agevolato dal suo colorito scuro, che lo faceva facilmente passare per un musulmano o per un indù, e da una straordinaria capacità di apprendere in fretta le lingue più esotiche.
Pellegrino alla Mecca
Nel 1853 tornò a Londra, dove riuscì a farsi finanziare dalla Royal Geographical Society un viaggio avventuroso e pericoloso in Arabia, con il compito di scrivere una relazione sull’interno semi-sconosciuto del Paese. Partì per La Mecca e Medina travestito da pellegrino afghano. Era un rischio mortale perché le città sante dell’Islam erano proibite agli infedeli; eppure Burton arrivò fino alla vietatissima Ka’ba e nel 1855 pubblicò su questo viaggio un libro che lo rese famoso in tutto il mondo. A onor del vero, non fu lui il primo europeo in assoluto a raggiungere La Mecca, perché in trecento anni altri cinque o sei folli erano riusciti nella temeraria impresa (il primissimo, che si sappia, fu un italiano di nome Ludovico de Varthema nel 1503, autore anche di un bel diario). Nessuno però ne aveva mai riportato un resoconto così dettagliato e affascinante, paragonabile solo a I sette pilastri della saggezza di Lawrence d’Arabia. In Africa Nel 1854 Burton si rimise in movimento, stavolta puntando verso l’Africa. Voleva raggiungere la quasi inaccessibile città di Harar, che oggi appartiene all’Etiopia e a quel tempo era capitale di un bellicosissimo regno islamico indipendente. Anche da questa esperienza trasse un grande libro, ma la spedizione fu la più sanguinosa fra tutte quelle a cui partecipò: il suo gruppo venne ripetutamente attaccato e fu costretto a difendersi con le armi, ci furono molte vittime e lo stesso Burton riportò una ferita quasi mortale. Il viaggio fu importante soprattutto perché gli diede occasione di conoscere un altro esploratore britannico destinato a diventare famoso, John Hanning Speke (1827-1864). Fra loro nacque un sodalizio, destinato a evolversi in feroce competizione.
Si sposa ma riparte
A 38 anni Burton si sposò con una giovane, bella e nobile ereditiera, di nome Isabel Arundell, ma non per questo si convinse a mettere giudizio. Nel 1856 partì per una nuova e pericolosissima avventura alla ricerca delle sorgenti ancora sconosciute del Nilo Bianco, per conto del Foreign Office e della Royal Geographical Society. A fargli da vice era il fido (o ritenuto tale) John Hanning Speke. La spedizione si addentrò in regioni abitate da bestie feroci e da tribù guerriere che non avevano mai visto un bianco: eppure, con costoro Richard F. Burton scoprì rapidamente la via del dialogo, ovviamente imparandone all’istante, e quasi per magia, le lingue e i dialetti. Burton e Speke arrivarono così a scoprire il Lago Tanganika, credettero per un attimo che la sorgente del Nilo fosse quella, poi si accorsero che lo specchio d’acqua aveva un immissario e si disposero a risalire anche quel fiume, penetrando ancora di più nel cuore dell’Africa. Purtroppo per Burton, problemi di salute gli impedirono di percorrere l’ultimissimo tratto e al Lago Vittoria (la vera sorgente del Nilo Bianco) arrivò da solo il suo vice Speke.
Lo scontro con Speke
Speke ne approfittò. Si lasciò alle spalle Burton malato, si affrettò a tornare in Inghilterra e quando vi arrivò – per primo e da solo – annunciò con le fanfare di aver scoperto le sorgenti del Nilo. Burton, capo-spedizione e coordinatore delle ricerche, si sentì tradito. Rientrato a sua volta a Londra, non si limitò ad accusare Speke di slealtà, ma si ostinò anche a contestare la validità stessa della scoperta, affermando, per effettiva convinzione o per pura stizza, che il Lago Vittoria non era la vera sorgente del Nilo Bianco e che le fonti dovevano essere cercate ancora più a monte. Adesso noi sappiamo che aveva torto, ma all’epoca questo non era affatto chiaro. Lo scontro personale fra i due esploratori suscitò aspre polemiche sui giornali e persino presso la compassata Royal Geographical Society; l’opinione pubblica si appassionò e si spaccò in due e un altro grandissimo esploratore dell’Africa, lo scozzese David Livingstone, si schierò dalla parte di Burton, contro Speke. La diatriba si concluse in modo tragico e tuttora misterioso: il 15 settembre 1864, un giorno prima di un dibattito pubblico con Burton davanti alla Royal Geographical Society, che l’opinione pubblica attendeva con trepidazione, Speke restò ucciso per un colpo partito dal suo stesso fucile, in uno strano incidente di caccia. Così concluse la polizia, anche se qualcuno parlò di suicidio. Forse Speke non riuscì a reggere la tensione? Non era abbastanza sicuro del fatto suo e temeva di fare una figuraccia pubblica, pur avendo ragione? È un fatto che non è stato mai davvero chiarito.
Altri viaggi e… traduzioni osé
Chiusa questa vicenda, Richard Francis Burton aveva davanti a sé altri decenni di vita, che dedicò ancora a viaggiare, soprattutto nelle Americhe (scrisse, in particolare, un libro memorabile sui Mormoni di Salt Lake City), ma pian piano cominciò a darsi a occupazioni un po’ più tranquille: si impegnò nel servizio consolare in Guinea Equatoriale, in Brasile, in Siria e a Trieste, e sempre più diventò prevalente per lui l’attività di scrittore di viaggio, di antropologo e di traduttore. Per le traduzioni dalle lingue orientali aveva un talento fenomenale e si rese conto che lì c’erano infiniti scrigni da aprire. Per esempio, de Le mille e una notte circolava in Occidente una traduzione espurgata da tutti i riferimenti sessuali espliciti, mentre lui ne produsse una integrale, che meravigliò e scandalizzò i contemporanei; poi sfidò ancora di più la morale vittoriana traducendo testi erotici asiatici e collaborando anche a un’edizione del Kama Sutra. Gliene vennero molti guai, anche legali; Burton sfidò tutto e tutti, in tribunale e fuori, anche a duello. Nel 1890, nel pieno della battaglia, morì per un’improvvisa malattia.
Il rogo dell’archivio
La vedova Isabel volle immediatamente abbassare i toni della polemica, preoccupandosi di tutelare il buon nome di Richard Francis Burton, e nel malinteso tentativo di difenderlo bruciò una gran quantità di carte del suo archivio, temendo che contenesse materiale considerato osceno. Nell’Ottocento alcuni parlarono addirittura di questo rogo come di un secondo incendio della Biblioteca di Alessandria, anche se gli storici più recenti ne ridimensionano l’entità; pare che Isabel abbia incenerito molto meno materiale di quanto si disse e si scrisse allora. Dopotutto da quell’archivio sono usciti ben quarantatré libri.
Una grande eredità
Burton lasciò ai posteri una grande eredità. Ciò non toglie che chi legge oggi i suoi libri, potrebbe notare frasi che suonano troppo disinvolte, se non addirittura razziste, a orecchie “politicamente corrette”. Ma un uomo come lui, che pregava e discorreva da musulmano fra i musulmani e da indù fra gli indù, senza che i suoi interlocutori notassero alcuna nota estranea, o che arrivava alle sorgenti del Nilo in mezzo a etnie che non avevano mai visto un europeo, delle quali apprendeva subito lingua e costumi, era evidentemente dotato di un’empatia eccezionale, incompatibile con il razzismo. A tutti gli effetti è stato un pioniere della multiculturalità. E, a margine, lo è stato anche della rivoluzione sessuale, visto che il Kama Sutra e altri testi cui mise mano hanno gettato i primi semi che sono fioriti negli anni Sessanta del XX secolo. Tante medaglie sul suo petto.