Lo dice la scienza: secondo gli ultimi dati, la temperatura dell’acqua è aumentata come non mai, causando ripercussioni catastrofiche di ordine climatico – alluvioni, uragani – e contribuendo allo scioglimento dei ghiacciai polari, all’origine di un sensibile innalzamento del livello dei mari del pianeta. Tra i più a rischio c’è il Mediterraneo, che ha registrato l’incremento termico maggiore
L’anno appena trascorso è stato il più caldo mai registrato sulla Terra. Il record riguarda anche gli oceani, che a loro volta hanno raggiunto la temperatura media globale più elevata di sempre.
Lo attesta lo studio dal titolo Upper Ocean Temperatures Hit Record High condotto da un team internazionale di scienziati, tra i quali i ricercatori italiani dell’INGV, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, e dell’ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. I dati dello studio evidenziano che nell’anno appena trascorso lo strato dell’oceano compreso tra la superficie e i 2.000 metri di profondità ha assorbito una quantità di calore rispetto all’anno precedente equivalente a quella prodotta da 630 miliardi di asciugacapelli in funzione giorno e notte per un anno intero. Per il ruolo determinante che l’oceano riveste nel modulare il clima della Terra, il suo contenuto di calore rappresenta il miglior indicatore del fatto che il pianeta sia febbricitante. Il 90 per cento del calore ambientale finisce negli oceani quindi in realtà il riscaldamento globale non è altro che il riscaldamento dell’oceano.
Conseguenze disastrose
Temperature così elevate determinano vere e proprie catastrofi come gli incendi di vastissime proporzioni scoppiati in Australia, in parti della regione amazzonica e negli Stati Uniti occidentali. Oceani più caldi contribuiscono a loro volta a un riscaldamento maggiore dell’atmosfera provocando all’opposto piogge più intense e un numero maggiore di tempeste e uragani con il conseguente rischio di ripetute inondazioni. È quanto si è verificato lo scorso anno in varie parti del globo: dal Nord America, le cui coste occidentali sono state devastate da un numero record di uragani, all’arcipelago delle isole Fiji, recentemente colpite da un ciclone di categoria 5, la massima prevista dalla scala dei venti messa a punto nel 1969 dagli scienziati statunitensi Herbert Saffir e Robert Simpson. Un gruppo di ricercatori dell’Università del Colorado avverte inoltre del pericolo di un aumento del livello degli oceani molto più rapido di quanto previsto a causa dell’accelerazione nello scioglimento dei ghiacci polari. Tale stima deriva da una nuova analisi delle osservazioni effettuate nell’arco degli ultimi di 25 anni dai quattro satelliti oceanografici TOPEX/Poseidon, Jason-1, Jason-2 e Jason-3, capaci di misurare con estrema precisione la distanza dalla superficie dell’oceano. Elaborando con un altro sistema i dati satellitari, il team di ricerca ha calcolato il nuovo aumento di livello che gli oceani raggiungerebbero nel 2100 al ritmo attuale di riscaldamento: ben 65 centimetri invece dei 30 precedentemente previsti. Le conclusioni non possono che essere davvero drammatiche: una simile situazione comporterebbe l’inondazione di molte città e metropoli costiere nonché la sparizione di molte isole del Pacifico, con una superficie sommersa totale pari a circa 1,8 milioni di chilometri quadrati.
Il caso Mediterraneo
Quanto a temperatura, il Mediterraneo non è secondo a nessuno: è infatti il mare che negli ultimi anni ha evidenziato il tasso di riscaldamento maggiore. A conferma di quanto già riscontrato nel Rapporto sullo stato dell’oceano del servizio marino europeo Copernicus del 2018, si tratta di un fenomeno iniziato alla fine degli anni Ottanta che, dopo un breve e apparente rallentamento intorno all’anno 2000, ha subito un forte incremento con un progressivo interessamento degli strati più profondi, tra i 200 e i 700 metri. Bacino poco profondo e quasi chiuso, con un unico punto di scambio con l’Oceano Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra, il Mediterraneo risente in modo particolare degli effetti dovuti al cambiamento climatico, primo fra tutti la riduzione e la scomparsa di molte specie ittiche. Altrettanto preoccupanti sono le stime relative al livello delle acque. Un recente studio condotto da ricercatori dell’INGV, dell’olandese Radboud University e della Sorbonne francese ha stabilito due scenari possibili per il 2050 e il 2100, calcolati sulla base delle proiezioni climatiche e della subsidenza, un abbassamento del suolo che varia da luogo a luogo. Se per il 2050 l’aumento massimo del livello medio del mare si aggirerà intorno ai 20 centimetri, nel 2100 si potranno raggiungere i 57 centimetri. A fronte a questi dati, ha preso il via lo scorso gennaio la fase operativa del progetto Savemedcoasts, finanziato dalla direzione generale per la Protezione Civile e gli aiuti umanitari dell’Unione Europea. In particolare, il progetto si concentrerà sullo studio di alcuni dei principali delta “uviali e di zone lagunari, come quella di Venezia, dove la subsidenza naturale e quella di origine antropica accelerano gli effetti dell’avanzamento del mare, con conseguenti maggiori rischi di sommergere tratti costieri ad alto valore naturale ed economico.
Generazione Oceano
A prendere coscienza della necessità di conoscere gli oceani per salvarli, e salvare così l’umanità stessa, sono anche le Nazioni Unite che lo scorso dicembre hanno proclamato il 2021 – 2030 il “Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile”. L’iniziativa, nata su proposta dell’UNESCO, mira a mobilitare la comunità scientifica, i governi, il settore privato e la società civile intorno a un programma comune di ricerca e innovazione tecnologica. I prossimi dieci anni dovranno essere dedicati a preservare e usare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine attraverso una serie di priorità. Spiccano fra queste un programma completo di osservazione degli oceani e un atlante digitale dei bacini principali, una conoscenza qualitativa e quantitativa degli ecosistemi oceanici e delle loro dinamiche e un sistema di allerta integrato per molteplici situazioni di rischio. Obiettivo principale è dar vita alla cosiddetta “generazione oceano”: il più gran numero possibile di attivisti che utilizzino la ricerca scientifica marina come strumento essenziale per garantire la salute del pianeta e contribuiscano a promuovere soluzioni innovative alle sfide che dovremo affrontare nei prossimi anni.
Vite nascoste
Anche se ogni anno vengono descritte quasi 2.000 specie marine nuove, la vastità e la profondità degli oceani limitano le nostre capacità di esplorazione fisica di questo mondo liquido. Quelle oggi note sono oltre 240mila, come attesta il World Register of Marine Species, un database internazionale contenente una lista quotidianamente aggiornata da un comitato composto da 490 esperti tassonomici, dislocati in tutto il mondo. La maggior parte delle specie sconosciute, stimate in oltre 2 milioni, si trova probabilmente negli habitat meno esplorati come le fosse oceaniche o alcuni bacini tropicali. Ciò significa che, dopo circa 250 anni di denominazione e catalogazione degli organismi che popolano i mari, siamo ancora molto lontani dal raggiungere un censimento completo. Dalla raccolta di un esemplare alla certificazione di una specie come nuova, il percorso è lungo e richiede spesso un’analisi del DNA che fornisca dati aggiuntivi per i ricercatori successivi in modo da poter identificare la nuova specie tramite il suo codice genetico. Conoscere il maggior numero possibile di specie marine non costituisce solo una curiosità scientifica, ma è importante per proteggere gli oceani. Le estinzioni prodotte dalla perdita di habitat e dai cambiamenti climatici stanno infatti progredendo a un ritmo allarmante: circa il 20 per cento delle specie marine sono a rischio e solo documentando ciò che sta accadendo potremo capirne meglio le ragioni e trovare il modo di porvi rimedio.
Da dove proviene l’acqua degli oceani?
Da dove provenga l’acqua di cui sono composti gli oceani è un interrogativo al quale a cui geologi, fisici e astronomi hanno dato risposte diverse e spesso in contrasto tra loro. La teoria più accreditata mette in relazione l’origine delle acque con l’infanzia turbolenta della Terra, che 4 miliardi di anni fa era pervasa da nubi di gas e vapori incandescenti rilasciati dai vulcani e da una crosta ribollente. In seguito al graduale raffreddamento del pianeta, i vapori si sarebbero condensati sotto forma di pioggia riempiendo le depressioni del suolo e dando origine ai primi mari. Un’altra ipotesi attribuisce invece all’acqua un’origine cosmica. Il prezioso liquido sarebbe infatti arrivato sulla Terra in seguito al bombardamento da parte della moltitudine di asteroidi, comete o altri corpi celesti ghiacciati presenti nel primordiale disco di polveri del sistema solare. C’è infine chi ritiene che l’acqua fosse già presente nella Terra primordiale all’interno di alcuni tipi di rocce costituite da particolari silicati idrati contenuti nelle rocce che l’avrebbero rilasciata durante la fase di raffreddamento del pianeta raggiungendo subito un volume oceanico molto simile a quello attuale.
SETTE CURIOSITÀ SUGLI OCEANI CHE NON SAPETE
1. L’OCEANO È UNO SOLO
Secondo quanto stabilito nel 1953 dall’Organizzazione idrografica internazionale esiste un unico oceano comprendente 4 bacini: l’Oceano Pacifico, l’Atlantico, l’Indiano e l’Artico. Alcuni scienziati anglosassoni aggiungono anche l’Oceano Antartico, comprendente l’insieme dei mari adiacenti all’Antartide.
2. QUANTO PESA L’ACQUA SALATA?
L’acqua di mare pesa in media il 2,5 per cento in più dell’acqua dolce. Piccole variazioni dipendono da temperatura e salinità: in mari chiusi o semichiusi, dove l’evaporazione è maggiore rispetto agli apporti di acqua dolce, i sali si concentrano e la densità aumenta.
3. RUMORI MISTERIOSI
Gli oceani sono pieni di suoni che stentano a trovare una spiegazione scientifica. Il più famoso è quello registrato nell’estate del 1997 dagli idrofoni della National Oceanic and Atmospheric Administration statunitense, proveniente dagli abissi dell’Oceano Pacifico. Chiamato “The Bloop”, era di ampiezza sufficiente per essere percepito dai sensori nel raggio di ben 5.000 chilometri.
4. QUANTA ACQUA CONTENGONO GLI OCEANI?
Secondo i più recenti calcoli effettuati dai ricercatori della Woods Hole Oceanographic Institution del Massachusetts, gli oceani ne contengono 1.332 miliardi di chilometri cubi, una cifra che rappresenta il 97,5 per cento di tutta l’acqua presente sulla Terra. Ciò significa che solo il 2,5 per cento è “teoricamente” potabile. Questa quantità già modesta si riduce infatti di circa il 90 per cento se si toglie il ghiaccio accumulato nelle calotte polari. Per far fronte alle nostre necessità vitali disponiamo di soli 93mila chilometri cubi, pari a circa lo 0,25 per cento del totale.
5. VULCANI IN ERUZIONE
La maggior parte dell’attività vulcanica terrestre avviene sul fondo degli oceani a profondità di migliaia di metri. Il 75 per cento dei vulcani si trova nell’Oceano Pacifico lungo un arco chiamato Cintura di fuoco.
6. L’OCEANO PRODUCE LA METÀ DELL’OSSIGENO
Ciò avviene grazie alla fotosintesi delle minuscole alghe blu-verdi che costituiscono il fitoplancton.
7. LA METÀ DEGLI OCEANI CAMBIERÀ COLORE
Secondo uno studio del Massachusetts Institute of Technology, la metà degli oceani è destinata a cambiare colore entro la fine del secolo. L’aumento del riscaldamento farà spostare da un’area all’altra le popolazioni di fitoplancton, donando una tonalità più blu alle acque subtropicali e un colore più verde a quelle vicine ai poli.