In questi tempi di clausura si fanno sentire più forti la necessità e il desiderio di esplorare. D’altra parte, la voglia di viaggiare ha un fondamento genetico: esiste infatti un gene che la accentua particolarmente in alcuni soggetti
Non ci era mai accaduto sino a ora di non poter viaggiare. A parte i problemi individuali o i limiti dettati da situazioni complesse qua e là nel mondo, legati per esempio a guerre o minacce terroristiche, ci siamo sempre mossi con relativa serenità, grazie anche al costo, molto più contenuto rispetto al passato, dei biglietti aerei e alla facilità con cui oggi è possibile organizzare e prenotare un viaggio in rete. Poi sono arrivati il COVID, le frontiere chiuse, la cancellazione dei voli e la sensazione di essere in gabbia. Per alcuni poi rinunciare a viaggiare è stato ancora più faticoso che per altri. Non siamo tutti uguali. Esiste davvero chi vivrebbe sempre con la valigia in mano. La “colpa” è dei geni: pare infatti che il desiderio irrefrenabile di viaggiare abbia a che fare con il nostro DNA e con un gene in particolare, denominato DRD4 7r.
Una questione di DNA
Si tratta di un recettore della dopamina, neurotrasmettitore prodotto dal cervello e in minima parte dalle ghiandole surrenali. Fa parte delle catecolamine, un gruppo di ormoni a cui appartengono anche adrenalina e noradrenalina. La dopamina è il loro precursore, conosciuto anche come il neurotrasmettitore dell’euforia perché la sua presenza è legata al meccanismo della ricompensa e alla percezione del piacere. DRD4 7r regola così la voglia di esplorare nuovi luoghi, apprendere le lingue e conoscere stili di vita diversi dal proprio. Secondo la ricerca pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica americana Evolution and Human Behaviour, circa il 20 per cento della popolazione mondiale possiede questo gene e, secondo le dichiarazioni dello studioso Chuansheng Chen dell’Università della California, è più facile che sia espresso in chi vive in zone del pianeta precedentemente abitate da popoli migratori che in passato avevano percorso lunghe distanze.
La sindrome di Wanderlust
Coloro che soffrono perché devono rinunciare a viaggiare sono affetti dalla sindrome di Wanderlust. Il termine, derivante dalle parole wandern (vagare, errare) e lust (desiderio), è stato utilizzato per la prima volta dal poeta tedesco Friedrich Rückert nell’opera Die drei Quellen (“Le tre fonti”) pubblicata nel 1819. La Wanderlust indica il desiderio di andare al di là del proprio mondo conosciuto, alla ricerca spasmodica di qualcosa di diverso e altro rispetto alla quotidianità. Esprime l’anelito alla scoperta, l’attrazione per l’ignoto, il desiderio di affrontare sfide impreviste e conoscere altre culture. Il sociologo statunitense, Robert Park, fondatore della Scuola di Chicago di sociologia, ha messo in evidenza il forte legame tra Wanderlust e rifiuto delle convenzioni sociali. Il viaggio diventerebbe quindi un modo per sganciarsi dai diktat della vita di tutti i giorni e dai canoni sociali a cui siamo, più o meno consapevolmente, costretti ad aderire.
I sintomi principali
Come ogni “patologia”, anche la Wanderlust viene diagnosticata attraverso i suoi sintomi, che si sono resi anche più evidenti durante la pandemia. Il primo è la smodata passione per mappamondi e carte geografiche. Spesso chi “soffre” di Wanderlust ha cartine appese ovunque alle pareti di casa, adora svisceratamente le mappe e conosce le capitali di quasi tutti i Paesi del mondo. Il secondo sintomo è la propensione a consultare continuamente siti Internet riguardanti itinerari di viaggio o prenotazioni. Nel caso sia difficile decidere in anticipo una meta, per esempio a causa di una situazione come quella che stiamo vivendo, l’affetto da Wanderlust penserà a tutte le possibili alternative di viaggio del futuro. Il terzo sintomo è la conoscenza precisa di tutti i voli disponibili e dei loro prezzi. A dispetto del COVID, il viaggiatore affetto da Wanderlust controlla regolarmente la situazione delle compagnie aeree e i possibili spiragli di apertura per prendere il primo aereo disponibile. Il quarto sintomo si rivela in libreria con l’attrazione inevitabile per la sezione viaggi, le guide e i romanzi di avventura. Il quinto è il persistente desiderio di ricevere come regalo, in qualunque occasione, un voucher per un viaggio. E poi la valigia sempre a portata di mano, il calcolo preciso dei fusi orari o la conoscenza di luoghi remoti sparsi ovunque sul pianeta, la padronanza di tre, quattro parole base in almeno 6 lingue diverse. Infine, l’affetto da Wanderlust diffida di coloro che non amano viaggiare.
Perché desideriamo viaggiare
Siamo nati nomadi e siamo fatti per muoverci e scoprire. Lo dice la nostra storia evolutiva: si tratta di un’esigenza primaria ereditata fin da tempi antichissimi. Prima di scegliere un luogo adatto in cui fermarsi per vivere, l’uomo ha dovuto cercare collocazioni confacenti alla propria sopravvivenza sia dal punto di vista delle coltivazioni agricole sia dal punto di vista climatico. Tranne poche eccezioni, ha occupato così ogni angolo del pianeta. Inoltre, nella storia dell’umanità gli spostamenti umani non hanno mai fine. Viaggiare, spostarsi, incontrare, conoscere fanno parte di noi. Lo dimostra molta letteratura, anche la più antica, che è racconto di viaggio, a partire dalla stessa Odissea. Lo dimostra la pittura con esempi eclatanti come il Viandante sul mare di nebbia del pittore romantico Caspar David Friedrich. Lo dimostra anche la fantascienza, che si basa proprio sul desiderio di scoprire nuovi mondi, al di là della Terra. Questo desiderio non ci abbandonerà mai. Come sostiene Tony Wheeler, che, con la moglie Maureen, ha fondato la Lonely Planet, famosa casa editrice specializzata in guide turistiche, viaggiamo per scoprire e capire. «I nostri meschini pregiudizi e le certezze vengono lasciati a casa, come gli abiti che non siamo riusciti a stipare nel bagaglio già sovraccarico», afferma Wheeler.
Più tristi senza viaggi
Oltre alla sensazione claustrofobica di mancanza di libertà dettata dai giusti limiti imposti alla libera circolazione in questi tempi di pandemia, la rinuncia ai viaggi ha indubbiamente inciso negativamente sul nostro benessere. Secondo quanto è emerso dallo studio A Wonderful Life: Experiential Consumption and the Pursuit of Happiness pubblicato nel 2014 dal Journal of Consumer Psychology, spendere soldi per viaggiare rende felici. Le ragioni sono legate al miglioramento delle nostre relazioni sia durante il viaggio sia in seguito, alla costruzione dell’identità personale e al minor numero di confronti sociali rispetto a quelli determinati dall’acquisto di un bene materiale. Anche Jeroen Nawijn, studioso di turismo presso l’Università di Breda ha messo in correlazione felicità e viaggi. Ha studiato il comportamento di 481 turisti di Amsterdam attraverso un questionario, scoprendo che viaggiare aumenta la soddisfazione quotidiana del 20 per cento. Ha anche notato che essa cresce dal secondo giorno di viaggio in poi fino al penultimo prima della partenza. Ma la felicità aumenta nuovamente l’ultimo giorno, forse perché tornare a casa è comunque un viaggio. Da questa ricerca è emerso che un viaggio breve, anche di 3 a 6 giorni, consente un buon miglioramento dell’umore.
Il lato positivo dello stop ai viaggi? Un nuovo modo di concepirli
Per qualcuno il COVID rappresenta un’occasione unica per rivedere il nostro concetto di viaggio. Lo dice il sociologo e saggista Rodolphe Christin, studioso dei fenomeni riguardanti l’industria turistica, che ha denunciato per anni le devastazioni legate all’industria del turismo e promuove viaggi più sobri, non necessariamente in Paesi lontani, anche ristretti ad aree vicine a casa. Il turismo deve tornare a essere una particolare esperienza del corpo e della mente, dice lo studioso, non un semplice spostamento. In sostanza, il viaggio deve rappresentare un’occasione di crescita personale, qualcosa a cui i principali player dell’industria del turismo non solo non tributano sufficiente attenzione, ma addirittura minano a favore del perseguimento del semplice “divertimento” e del consumo. Forse, in questi mesi di clausura forzata, abbiamo avuto occasione di rifletterci su: prima di viaggiare dobbiamo cominciare a osservare con attenzione ciò che ci sta accanto.
8 ragioni per mettersi in viaggio
Le ragioni che ci inducono a muoverci da casa e determinano la scelta delle nostre destinazioni sono moltissime e diverse per ognuno di noi. Numerosi studi sul turismo che si sono susseguiti nel corso degli anni hanno però notato 10 ragioni che prevalgono su tutte le altre e che ricorrono.
- Ragioni psicologiche soggettive: il desiderio di rilassarsi e riposarsi.
- Motivi interpersonali e relazionali: conoscere nuove persone, trovare nuove amicizie o nuovi partner.
- Desiderio di fuga: lasciare alle spalle situazioni complesse da gestire, allontanarsi da relazioni difficili o in crisi e fuggire dal quotidiano.
- Ragioni culturali: visitare musei, pinacoteche, città d’arte per arricchire le proprie conoscenze storico-artistiche.
- Motivazioni fisiologiche: ricercare il benessere fisico anche attraverso i “viaggi della salute” che includono terapie mediche o estetiche.
- Ragioni ambientali: dare seguito all’esigenza di aria pulita e luoghi incontaminati.
- Desiderio esplorativo: il bisogno di nuove esperienze oltre il noto e conosciuto.
- Esibizione di status: rendere evidenti ed esplicite le proprie possibilità economiche e omologarsi allo standard di riferimento.