Era il desiderio di sua mamma, ma il sanguinario dittatore russo si fece espellere dal seminario. Sposatosi due volte, Stalin ebbe numerose amanti nonostante si vergognasse del suo aspetto fisico
L’infanzia di Josif Stalin fu segnata dalla miseria e da genitori duri e maneschi. La madre, Ekaterina Geladze detta Keke, proveniva da una famiglia di servi della gleba emancipati; a 18 anni, fu sposata al ciabattino Vissarion Džugašvili, uomo violento e alcolizzato che, dopo averla picchiata e tradita, morì quando il figlio Iosif aveva appena 11 anni. Dopo essere rimasta vedova, Keke cercò di sbarcare il lunario lavorando come lavandaia e sartina e si dannò per iscrivere il figlio al seminario di Tilis: da donna pia e bigotta qual era, sognava per lui le solide sicurezze della carriera ecclesiastica. Stalin, però, dopo qualche anno, fu espulso dalla scuola e scelse per sé tutt’altra strada. Keke non si allontanò mai dalla Georgia, neppure dopo che suo figlio prese in mano le redini di un potere pressoché assoluto. Non andava a trovarla spesso: sappiamo che la incontrò nel 1935, dopo otto anni che non si vedevano. Un testimone oculare dell’incontro ricorda che tutto a un tratto la madre gli domandò: «Josif, che cosa sei adesso? ». «Sono segretario generale del partito comunista, madre. Ricordate il nostro zar?», Stalin diede sempre del “voi” alla madre. «E come no!», rispose la donna. «Ecco, io sono una specie di zar», spiegò lui. Lei alzò le spalle: «Sarebbe stato meglio se fossi diventato prete».
In pubblico usava il make-up
Fisicamente, Stalin non era affatto come lo ritraevano i disegnatori e i pittori al soldo della propaganda di partito. Nei manifesti dell’epoca appariva infatti alto, prestante e quasi imponente, mentre in realtà misurava appena 1 metro e 65 centimetri (Mussolini lo superava di 3 centimetri). Avendo il volto grigio e butterato, a causa dei segni del vaiolo che aveva contratto nell’infanzia, prima di comparire in pubblico spesso si faceva truccare le guance per nascondere le brutte cicatrici. A dieci anni fu investito da un calesse davanti alla scuola del suo paese natale, Gori. Sopravvisse, ma gli rimase un danno permanente al braccio sinistro che restò anchilosato e più corto del destro: una menomazione di cui il dittatore si vergognò tutta la vita.
I suoceri erano i suoi preferiti
Stalin era un uomo assai ambiguo: «In lui convivevano convivialità e perfidia, crudeltà e generosità, comprensione verso le debolezze altrui, invidia verso chi aveva capacità superiori alle sue o troppa autonomia di pensiero». Così lo descrive Osvaldo Sanguigni, studioso di storia russa, collaboratore della Rai per le questioni sovietiche e docente presso l’Istituto orientale di Napoli. Dotato di forte volontà e acuta intelligenza, raramente perdeva la calma o alzava la voce, ciò nonostante poteva essere terribile, vendicativo e spietato. «Ruvido e coriaceo, georgiano fino al midollo, rimase sempre legato all’antica logica del clan», scrive lo storico inglese Simon Sebag Montefiore. Lo conferma anche Osvaldo Sanguigni: «I legami di parentela erano importanti per Stalin e questa sua debolezza fu sfruttata dai suoi parenti per ottenere privilegi e benefici». Come un vecchio zar, Stalin si circondò di una vera e propria corte composta da familiari, parenti, amici, conoscenti, compagni di partito, questuanti e cortigiane, tutti pronti a inchinarsi e a blandire il detentore del potere. Come tutte le corti, anche la sua fu un covo di vipere e veleni, di intrighi e cospirazioni, intrisa di clientelismo e nepotismo. E se da un lato gran parte dei parenti di Stalin non smise di agitarsi alla ricerca di vantaggi personali, dall’altro il dittatore non esitò a usare contro i parenti gli stessi metodi repressivi che usava contro nemici e dissidenti: «Moltissimi parenti conobbero il carcere, i campi di rieducazione, l’esilio. Si salvarono solo i suoceri della seconda moglie perché erano vecchi bolscevichi», scrive Sanguigni.
A tavola con Churchill
A differenza di Hitler e Mussolini, Stalin non amò il lusso e non cercò mai di arricchire le proprie tasche né di appropriarsi di beni statali: morì lasciando un paio di stivali con la suola sfondata e un solo vestito buono. Nondimeno, amava il buon cibo, le belle donne e soprattutto gli alcolici: beveva notevoli quantità di vodka e vini georgiani, come il rosso Mukuzani. Le cene che offriva ad amici e ospiti politici si protraevano fino alle cinque del mattino, tra scorpacciate e brindisi. Nell’agosto del 1942, in piena guerra, il premier britannico Churchill giunse a Mosca e Stalin, che lo considerava “il nemico numero uno”, ma anche “la persona più intelligente tra quelle che ho conosciuto”, offrì un banchetto in suo onore. Tra gli invitati, una decina, vi era il maresciallo Golovanov, che in un libro di memorie, pubblicato nel 1971, raccontò come si svolse la cena in stile georgiano. Stalin, che aveva assunto il tradizionale ruolo di tamada (capo-tavola), fece una serie interminabile di brindisi ai quali Churchill non poté esimersi dal partecipare. Dopo un bel po’ di prosit, il premier inglese cominciò a dare segni preoccupanti – era ormai ubriaco fradicio – mentre Stalin sembrava mantenere un perfetto controllo. A un tratto, Churchill si accasciò sulla sedia, incapace di tenere gli occhi aperti: accorsero gli inservienti che lo afferrarono di peso e lo trascinarono verso la camera da letto. Golovanov gettò un’occhiata preoccupata a Stalin che lo fissò a sua volta, esclamando: «Non temere, non mi bevo la Russiafi».
Due figli morti precocemente
Tristi e infelici: così vissero gran parte dei familiari di Stalin. Il figlio di primo letto, Jakov – piccolo, magro, viso pallido e occhi neri, carattere introverso – ebbe un rapporto difficilissimo col padre. Da ragazzo tentò di spararsi un colpo di pistola alla tempia, ma fallì e si ferì solo di striscio; Stalin commentò con la seconda moglie: «Jakov è un buono a nulla… non è neppure capace di sparare dritto». Durante la Seconda guerra mondiale, il giovane si arruolò in un battaglione di artiglieria e combatté sul fronte bielorusso. Il 4 luglio 1941 fu fatto prigioniero dai tedeschi; alla notizia il padre commentò: «Non vi sono prigionieri di guerra, solo traditori della patria». Jakov morì a soli 37 anni nel campo di concentramento nazista di Sachsenhausen, ma su questa morte resta tuttora il mistero: non si sa se fu giustiziato, se fu colpito da una guardia mentre cercava la fuga o se si sia addirittura suicidato. Anche il figlio di secondo letto, Vassilij, fece una fine tragica: morì in carcere, nel 1962. Aveva appena 41 anni, ma il fegato era già a pezzi, lo stomaco piagato da un’ulcera e l’organismo debilitato, tutti danni causati dall’alcolismo e aggravati dalla miseria.
Stalin, era solo un soprannome
Al potere dal 1924 al 1953, il dittatore sovietico nacque a Gori, in Georgia, il 6 dicembre del 1878 (dichiarò invece di essere nato il 21 dicembre 1879 e tale rimase il suo compleanno ufficiale) con il nome di Josif Vissarionovic Džugašvili. Stalin fu il soprannome che Josif assunse nel 1913, durante l’epoca degli Zar, e che significa in russo “d’acciaio”. Non fu l’unico soprannome: nell’infanzia, Josif fu chiamato dai familiari Soso, mentre prima e durante la Rivoluzione del 1917 fu Koba per i “compagni” bolscevichi. Soselo, infine, fu lo pseudonimo che Stalin scelse per firmare le sue liriche, composte nel 1895.
le sue donne: due mogli, una figlia e molte amanti
Stalin ebbe diverse amanti,, tra cui Vera Alexandrovna Davydova, soprano del Bolshoi, e due mogli. La prima, Ekaterina Svanidze, morì a 22 anni di tifo; la seconda, Nadezhda Allilueva, una bella russa di 20 anni più giovane di lui, fu trovata con la testa fracassata da un proiettile nella notte fra l’8 e il 9 novembre del 1932. Aveva appena 31 anni. Omicidio o suicidio? «L’interrogativo resta. Non vi furono indagini giudiziarie ufficiali. I familiari, Stalin incluso, avrebbero voluto che i medici incaricati di eseguire l’autopsia attribuissero la morte a una peritonite, ma ottennero un netto rifiuto, e nel comunicato ufficiale si parlò solo di morte “improvvisa”», scrive Sanguigni. Quanto alla rossa Svetlana, l’adorata figlia di Stalin, fu l’unica a morire in vecchiaia. Si è spenta a 85 anni il 22 novembre 2011 per un cancro al colon, non in Russia, ma nel Wisconsin (Usa) dov’era scappata nel 1967 e dove aveva vissuto, infelice e prigioniera dei fantasmi del passato, con il nome di Lana Peters. Quando arrivò a New York, disse ai giornalisti: «Sono qui per ritrovare quella libertà che mi è sta negata per così tanti anni». Trovò la libertà, ma non la felicità. Qualche anno più tardi, dopo aver pubblicato una drammatica autobiografia in inglese, Twenty letters to a friend, disse: «Non puoi rammaricarti per il tuo destino, ma io mi rammarico del fatto che mia madre non abbia sposato un falegname».
I gulag e l’epoca delle “grandi purghe”
Dagli anni Trenta sino alla morte (1953), Stalin represse ogni forma di dissidenza e opposizione politica, epurò il patito comunista da presunti cospiratori o traditori e fece condannare, fucilare o deportare nei campi di lavoro correttivi, i gulag (lager dislocati ovunque, anche in Siberia), innumerevoli cittadini sulla base di semplici delazioni o sospetti. Fu una vera e propria “caccia alle streghe”, un’epoca di “terrore” e di ondate di persecuzione dette “grandi purghe”. Quante vittime e quanto sangue versò lo stalinismo? Ecco che cosa scrive lo storico Osvaldo Sanguigni: «Robert Conquest, storico inglese ed ex agente segreto, autore di un libro sul Grande Terrore staliniano, sostiene che dal 1930 al 1953 in Urss per motivi politici sono stati uccisi 12 milioni di persone. Lo storico russo Dmitrij Volkogonov sostiene circa 7 milioni. La studiosa russa Olga Shatunovskaja ha sostenuto che solo nel corso delle repressioni del 1937-1938 ci sono state 7 milioni di vittime. È difficile dire quanto o quali siano attendibili».