Ogni italiano accumula 50 chili di imballaggi a testa all’anno: dalle bottiglie in plastica dell’acqua alle vaschette in polistirolo degli alimenti, dalle scatole di cartone alle teglie in alluminio. Per fortuna siamo bravissimi a separare i rifiuti, ma che fine fanno? Possono davvero essere riutilizzati all’infinito?
Ogni anno nel carrello della spesa di ogni italiano finiscono 50 chili di confezioni in una miriade di materiali diversi. Plastica, carta, alluminio sono infatti da anni il corredo ufficiale dei beni di largo consumo, dalla pasta ai prodotti acquistati online fino a fazzoletti di carta e affettati. Ma una volta che li abbiamo depositati nella raccolta differenziata, che fine fanno tutti questi imballaggi? Si può davvero riciclare tutto? Sì e no, dipende dalle tecnologie disponibili per valorizzare i rifiuti e dal mercato del riutilizzo delle materie. Almeno su questo fronte, bisogna dire che l’Italia è uno dei Paesi più efficienti e l’economia circolare, basata sulla valorizzazione degli scarti, gira a dovere. L’anno scorso, con il riutilizzo di oltre 9 milioni e mezzo di tonnellate di materiali, la raccolta differenziata di incarti e confezioni di plastica e altri imballaggi ha superato il 70 per cento del totale, contro il 65 per cento richiesto dalle istituzioni europee.
Certo, l’emergenza coronavirus ha fatto saltare questo circolo virtuoso e, per un certo periodo, si è rischiata addirittura la sospensione dei ritiri. Da quando è stato proclamato il lockdown, si sono infatti impennati i consumi nei supermercati e gli imballaggi da smaltire sono aumentati del 30 per cento. Peccato che le industrie che avrebbero potuto acquistare questi materiali fossero chiuse. E sui piazzali degli impianti di riciclo, per quasi due mesi, sono rimaste tonnellate di plastica, alluminio e metallo che nessuno voleva. In tempi normali, invece, dove inizia e dove finisce la filiera degli imballaggi? Una bottiglia, tre plastiche Partiamo dalla regina del prodotto confezionato, la plastica.
La troviamo quasi ovunque: ci sono circa 30mila generi diversi di imballaggi, dal sapone liquido alle vaschette degli affettati. In realtà si tratta di un malinteso perché la parola “plastica” comprende una miriade di materiali diversi. Una varietà tale da diventare problematica da gestire per il sistema di separazione e riciclo. La classica bottiglia dell’acqua, uno dei prodotti più semplici da riciclare, contiene per esempio tre famiglie di plastica: il corpo principale è in PET, uno dei materiali nobili e con maggiore richiesta di mercato, il tappo è in polietilene ad alta densità (HDPE) come quello dei “aconi dello shampoo o delle confezioni del detersivo, mentre l’etichetta è stampata su una pellicola di polietilene a bassa densità. Una volta prelevata dal bidone della differenziata, dunque, la bottiglia viene portata prima in uno dei 300 centri di compattazione dove si esegue una separazione grossolana da altri rifiuti solidi, nel caso per esempio della raccolta multimateriale, e la si comprime in blocchi di un metro cubo chiamati volgarmente “balle”.
Dopo questa prima fase, il viaggio della bottiglia di plastica, così come tutti gli imballaggi di questo tipo, continua verso uno dei 35 centri di selezione secondaria, dove si separano i diversi materiali. Da un impianto all’avanguardia possono uscire fino a 15 polimeri diversi, che vengono selezionati con una tecnologia basata sui sensori ottici. Dopo questa separazione, che prevede un’ultima fase di controllo manuale da parte di un operatore, le diverse tipologie di plastica hanno una purezza che può superare il 95 per cento e, nel caso del PET, possono essere anche divise in base al colore del materiale. In Italia gli impianti più avanzati sono stati costruiti di recente da a2a, una multiutility italiana di servizi ambientali, con sede a Cavaglià in provincia di Biella, per servire il Piemonte e nell’area metropolitana di Milano. A questo punto la plastica, divisa per famiglie, viene messa all’asta da COREPLA, il Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica.
I valori di mercato per questi materiali sono molto diversi. Negli ultimi tre anni, per esempio il PET e, in parte, il polietilene ad alta densità hanno quasi raddoppiato il prezzo, passando da 240 a 400 euro a tonnellata, e ora di piu.
Tra i rifiuti da imballaggio abbonda anche una forma di plastica meno nobile che fatica a trovare acquirenti. Stiamo parlando delle pellicole o film di polietilene a bassa densità come il sacchetto di plastica, che nonostante il divieto delle normative, circola ancora: dall’incarto delle casse d’acqua alle monoporzioni e agli imballaggi della frutta. Nel 2016 il film plastico era venduto a 80 euro a tonnellata, poi è sceso a 50 euro nel 2017 per arrivare a 2 euro a tonnellata nel 2018, raggiungendo il cosiddetto “valore zero”. Ciò significa che il COREPLA paga per smaltirlo e c’è il rischio concreto che il film plastico finisca in discarica.
Il lato oscuro della plastica
Lo chiamano “il lato oscuro della plastica” ma si può abbreviare con una sola parola: plasmix. È un misto di materiali che non ha mercato, come nel caso del polietilene a bassa densità, oppure non è riciclabile: come la plastica delle vaschette per gli affettati, realizzate sovrapponendo strati diversi di polimeri con lo scopo di preservare il prodotto all’interno della confezione. Il suo destino principale è il recupero energetico, ma esiste il rischio concreto che parte di esso non trovi collocazione nei termovalorizzatori o nei cementifici e quindi finisca in discarica dopo un pellegrinaggio nei vari impianti di selezione.
Per ricavare qualcosa di buono dal plasmix, ENI, multinazionale italiana degli idrocarburi, sta sperimentando nella raffineria di Livorno un nuovo impianto di gassificazione per produrre metanolo, un carburante alternativo per i veicoli, dal plasmix e da altri rifiuti non riciclabili.
La leggenda del riciclo infinito
Un discorso diverso vale invece per la carta, materiale di imballaggio onnipresente nella nostra vita quotidiana: dal cartone della pasta al pacco del corriere. A differenza della plastica non è un mosaico di sostanze diverse ma è fatto di una sola fibra, la cellulosa. In questo caso gli impianti di selezione sono meno automatizzati e hanno ancora una componente manuale. Il ciclo della carta è molto più semplice perché viene imballata e spedita alle cartiere.
Ma anche qui c’è un “lato oscuro”. La carta, come l’alluminio o il vetro, non è riciclabile all’infinito. Dopo quattro o cinque volte le fibre iniziano a sfaldarsi.
Senza contare il problema del contatto alimentare. La carta riciclata, secondo alcuni studi, non sarebbe adatta per le confezioni di frutta e verdura perché gli oli minerali presenti negli inchiostri possono trasferirsi sul prodotto. A differenza della carta e della plastica, infine, l’alluminio riciclato ha dei vantaggi oggettivi in termini di costi e impatto ambientale perché non richiede l’estrazione della bauxite, la materia prima da cui si ottiene, per la quale è necessaria una quantità titanica di energia.