Più di una volta mi è stato chiesto che cosa io pensi della morte, di questa non dubbia fine della singola esistenza umana. La morte ci è nota senz’altro come una fine. È un punto fermo che viene posto talora prima che la frase sia compiuta: e oltre di essa non resta che il ricordo o una postuma influenza sugli altri, ma per l’individuo la clessidra si è vuotata e il sasso che rotola è giunto alla posizione di riposo. Rispetto alla morte la vita ci appare come un fluire, come il cammino di un orologio caricato, il cui arresto finale è evidente. Non siamo mai tanto convinti del “fluire” della vita come quando una vita umana giunge al suo termine dinanzi ai nostri occhi; e mai s’impone in modo più stringente e penoso il problema del significato e del valore della vita come quando assistiamo all’ultimo respiro che abbandona un corpo, vivo sino a un attimo prima. Quanto ci appare diverso il senso della vita, quando vediamo un uomo giovane affannarsi per mete lontane e crearsi il proprio avvenire, e quando guardiamo invece un ammalato già condannato o un vegliardo che senza più forze s’avvia fatalmente verso la tomba! La gioventù così – ci sembra – ha scopo, avvenire, senso e valore; mentre l’arrivare alla fine ci appare solo come una cessazione senza significato. Se un giovane è preso d’angoscia di fronte al mondo, alla vita e all’avvenire, ognuno trova ciò increscioso, irrazionale, nevrotico: lo si giudica vile. Ma se l’uomo anziano prova un segreto terrore, anzi l’angoscia della morte, al pensiero che gli anni di vita che gli rimangono non son più di tanti, il ricordo doloroso di analoghi sentimenti che albergano anche nel nostro petto ci assale, e se possiamo guardiamo altrove e cambiamo discorso. L’ottimismo con cui si giudica il giovane vien meno. Abbiamo, è vero, una qualche massima da offrire al nostro prossimo, per ogni caso, quale ad esempio: “tutti dobbiamo morire”, “la vita non può essere eterna”, e via dicendo. Ma quando si è soli, di notte, e non si ode né si vede altro nel silenzio e nell’oscurità che i pensieri che addizionano e sottraggono anni di vita e la lunga serie dei fatti ingrati che ci provano senza misericordia quanto abbia ormai camminato l’indice dell’orologio – lento e fatale approssimarsi di quel buio fondo in cui verrà inghiottito alla fine tutto ciò che amiamo, desideriamo, possediamo e speriamo e per cui ci affanniamo – allora scompaiono le sagge massime e l’angoscia ci coglie nell’insonnia, mozzandoci il respiro.
Come vi è un gran numero di giovani i quali, pur aspirando avidamente alla vita, ne hanno in fondo un terrore panico, così vi è un numero forse maggiore di anziani, i quali hanno la stessa paura della morte. Ho anzi osservato che proprio le stesse persone giovani che temono la vita sono soggette più tardi all’angoscia della morte. Finché sono giovani, si dice che hanno resistenze infantili di fronte alle normali esigenze della vita; quando sono vecchie, si dovrebbe dire la stessa cosa, e cioè che provano anche allora angoscia di fronte a un’esigenza normale della vita. Siamo invece a tal punto convinti che la morte sia soltanto la fine di un fluire, che di solito non ci accade di concepire la morte come uno scopo o un compimento, come si fa per le mete e i progetti di una vita giovanile, in fase ascendente.
La vita è un fluire di energia. Ma ogni processo energetico è irreversibile per principio e quindi diretto in modo univoco verso una meta: e tale meta e uno stato di riposo. Qualunque processo non è in definitiva che il turbamento iniziale di uno stato di quiete, per così dire eterno, il quale mira costantemente a ristabilirsi. Anzi la vita è quanto vi è di più teleologico; essa è di per sé tendenza a un fine; e il corpo vivente è un sistema di finalismi che tendono alla propria realizzazione. La fine di ogni fluire è una méta. Ogni fluire è come un corridore che si adopera col massimo sforzo e con tutto l’impegno a raggiungere il traguardo. Ardore giovanile rivolto al mondo e alla vita e al compimento di tese speranze e di mete lontane, questo è l’esplicito finalismo della vita, che si tramuta in angoscia, in resistenze nevrotiche, in depressioni e fobie ogni qualvolta essa rimanga in qualche modo fissata al passato o indietreggi di fronte a quei rischi senza i quali le mete prefissate non possono essere raggiunte. Pervenuto alla maturità e al vertice della vita biologica, che coincide all’incirca con la metà della sua durata, il finalismo della vita non viene meno per questo. Con la stessa intensità e irresistibilità con cui esso tirava in salita nella prima metà, ora esso trascina in discesa, ché il traguardo non sta nel vertice, ma nella valle dove era iniziata l’ascesa. La curva della vita è come la traiettoria di un proiettile. Tolto dal suo stato iniziale di quiete, il proiettile sale, per ritornare scendendo allo stato di quiete.
La curva della vita psicologica non vuole tuttavia adattarsi a questa legge naturale. Le discordanze possono cominciare ben presto, anche durante l’ascesa. Il proiettile sale biologicamente, ma esita psicologicamente. Uno rimane indietro rispetto ai propri anni, conserva la propria infanzia, come se non potesse staccarsi dal suolo; trattiene la lancetta e immagina che con ciò il tempo si arresti. E se alla fine è giunto con qualche ritardo alla cima, torna a fermarsi anche lì, psicologicamente; e quantunque sia evidente che sta già scivolando dall’altra parte, si aggrappa – non fosse altro con lo sguardo che persiste a volgersi indietro – all’altezza già raggiunta. Come la paura lo tratteneva prima di fronte alla vita, così essa lo trattiene ora di fronte alla morte. Inoltre, essendosi attardato in salita per paura della vita, pretenderebbe ora di trattenersi sulla cima raggiunta per indennizzarsi del ritardo. Si è reso conto che la vita, nonostante tutte le resistenze (di cui ora, ahimè quanto, si pente) l’ha spuntata su di lui, ma ciò nonostante tenta ancora di fermarla. Con ciò la psicologia di quest’uomo perde il suo terreno naturale: la sua coscienza rimane sospesa nell’aria, mentre sotto di lui la parabola scende con moto accelerato.
Il terreno da cui trae nutrimento l’anima è la vita naturale. Chi non la segue rimane disseccato e campato in aria. Perciò molti uomini s’inaridiscono con l’età: si volgono indietro, con una segreta paura della morte nel cuore. Si sottraggono, almeno psicologicamente, al processo vitale; simili alla mitica statua di sale si rivolgono ancora vivacemente ai ricordi della giovinezza, ma perdono ogni vivente contatto col presente. Nella seconda metà dell’esistenza rimane vivo soltanto chi, con la vita, vuole morire. Perché ciò che accade nell’ora segreta del mezzogiorno della vita è l’inversione della parabola, è la nascita della morte. La vita dopo quell’ora non significa più ascesa, sviluppo, aumento, esaltazione vitale, ma morte, dato che il suo scopo è la fine. “Disconoscere la propria età” significa “ribellarsi alla propria fine”. Entrambi sono un “non voler vivere”; giacché “non voler vivere” e “non voler morire” sono la stessa cosa. Divenire e passare appartengono alla medesima curva.
La coscienza fa quel che può per non accogliere questa verità pur incontestabile. In genere si resta attaccati al proprio passato, fermi nell’illusione di restar giovani. Essere vecchi è estremamente impopolare. Non ci si rende conto che il “non poter invecchiare” è cosa da deficienti, come lo è il non poter uscire dall’infanzia. Un uomo di trent’anni che è ancora infantile viene compatito; ma un settantenne giovanile viene considerato “delizioso”. Eppure sono entrambi perversi, senza stile e psicologicamente deformi. Un giovane che non lotta e non vince, si lascia sfuggire la parte migliore della giovinezza; un vecchio che si rifiuta di dare ascolto al mistero del torrente che scroscia dalle cime verso le valli, è dissennato, è una mummia spirituale e quindi null’altro che un passato cristallizzato. Egli se ne sta fuori della propria vita e non fa che ripetersi meccanicamente fino alta più stucchevole sazietà. Che razza di civiltà può essere quella che ha bisogno di simili fantasmi?
L’attuale durata media della vita, relativamente più lunga di prima, com’è stato provato statisticamente, è un prodotto della civiltà. I primitivi raggiungono un’età avanzata solo eccezionalmente. Così, ad esempio, presso le tribù dell’Africa orientale da me visitate ho veduto assai pochi uomini coi capelli bianchi e con l’aspetto di sessantenni. Ma essi erano veramente vecchi; ossia, come se fossero sempre stati tali: tanto completa era la loro immedesimazione nell’età. Erano proprio quel che erano, sotto ogni aspetto. Noi siamo invece sempre o più o meno di ciò che siamo propriamente. È come se la nostra coscienza si fosse un poco spostata, sdrucciolando dalla propria base, e non riuscisse più a ritrovarsi completamente col tempo naturale. E pare quasi che la coscienza, per una sua alienazione, ci tragga in inganno, facendoci apparire il tempo della vita come una pura illusione che può essere mutata a volontà (rimane da chiedersi donde tragga la coscienza propriamente la sua capacità di essere contro natura, e che cosa significhi quel suo arbitrio).
Così come la traiettoria di un proiettile termina al bersaglio, la vita termina nella morte, che è quindi il bersaglio, lo scopo di tutta la vita. La traiettoria ascendente e il vertice sono soltanto gradi e mezzi per raggiungere lo scopo, il fine, cioè la monte. Questa formula paradossale altro non è che la logica conseguenza del finalismo della vita; né mi pare che si tratti di un giuoco di sillogismi. Noi attribuiamo uno scopo e un senso al sorgere della vita; e perché non dovremmo fare altrettanto per il suo declino? La nascita dell’uomo è densa di significato; e perché non dovrebbe esserlo la morte? L’uomo giovane viene preparato per vent’anni e più al pieno sviluppo della sua esistenza individuale; e perché non dovrebbe per vent’anni e più preparare la sua fine? Tuttavia… giunti al vertice sappiamo di averlo conseguito, siamo al vertice e lo possediamo. Ma che cosa si ottiene con la morte?
Mi ripugna, proprio al momento in cui ci si dovrebbe attendere una conclusione, appellarmi all’improvviso a una fede e chiedere al lettore di fare proprio ciò che non ha mai potuto fare, ossia credere. Debbo anche confessare che io stesso non l’ho mai potuto fare. Mi asterrò quindi dal sostenere che si debba credere senz’altro che la morte sia una seconda nascita e che essa ci porti a un’esistenza ulteriore al di là della tomba. Ma debbo pur ricordare che il consensus gentium ha intorno alla morte concetti precisi, i quali sono stati espressi inequivocabilmente in tutte le grandi religioni della terra. Si può dire anzi che la più parte di quelle religioni sono dei complessi sistemi di preparazione alla morte; in quanto per esse la vita non significa altro – precisamente nel senso della formula paradossale sopra enunciata – che una preparazione al termine estremo, alla morte. Per le due maggiori religioni viventi, il Cristianesimo e il Buddismo, il senso dell’esistenza si compie con la sua fine.
Ai tempi dell’illuminismo si è venuta sviluppando un’interpretazione sull’essenza delle religioni che, non fosse altro per la sua larga diffusione, merita di essere ricordata, quantunque si tratti di uno fra i più tipici errori illuministici. Secondo questa opinione le religioni dovrebbero essere un che di simile ai sistemi filosofici e come quelli frutti di un’elaborazione cerebrale. Qualcuno si sarebbe inventato un Dio e altri dogmi, e avrebbe gabbato l’umanità con quelle fantasticherie, “atte a soddisfare i desideri degli uomini”. Contro tale opinione sta però il fatto psicologico che proprio con il cervello si riesce male a pensare i simboli religiosi. Questi non sono per nulla un prodotto della testa, ma di qualche altra cosa: forse del cuore; comunque, di un profondo strato psichico, il quale ha assai poco da fare con la coscienza, che è sempre e soltanto superficie. Perciò i simboli religiosi hanno anche un netto carattere di “rivelazione ”, appunto come prodotti spontanei di un’attività psichica inconscia. Essi sono tutto fuorché “pensati”; sono cresciuti lentamente, come piante, nel corso dei millenni, quali manifestazioni naturali dell’anima dell’umanità. Anche ai nostri giorni ci è dato di osservare la formazione spontanea di veri e propri simboli religiosi nell’individuo; essi spuntano dall’inconscio come fiori di specie ignota, e la coscienza rimane smarrita e non sa bene che cosa fare con tale nascita. Non è troppo difficile stabilire che quei simboli individuali provengono, per il loro contenuto come per la forma, da quello stesso “Spirito” inconscio (o quel che esso sia) da cui provengono le grandi religioni degli uomini. L’esperienza prova comunque che le religioni non sorgono quali frutti di un’elucubrazione cosciente, ma provengono dalla vita naturale dell’anima inconscia, che in qualche modo esprimono adeguatamente. Ciò spiega la loro diffusione universale e la loro straordinaria efficacia storica sull’umanità. Tale azione sarebbe incomprensibile se i simboli religiosi non fossero per lo meno verità naturali psicologiche.
So bene che molta gente accoglierà male la parola “psicologico”. Per acquietare quei critici aggiungerò che per quanto nessuno sappia che cosa sia “psiche”, ciò non ci vieta di precisare fin dove si estenda la “psiche” nella natura. Una verità psicologica non è perciò da meno di una verità fisica: questa è circoscritta alla materia come quella alla psiche.
Quel consensus gentium che si esprime nelle religioni propende, come abbiamo visto, per la formula paradossale che ho ora enunciato. Pare dunque che risponda meglio all’anima collettiva dell’umanità considerare la morte come un compimento del significato della vita e come scopo specifico di essa, che non come una mera cessazione priva di un significato. Chi dunque si associa all’opinione luministica, rimane psicologicamente isolato e in contrasto con quella realtà umana universale a cui appartiene egli stesso.
Quest’ultima proposizione contiene una verità fondamentale, valida per tutte le nevrosi; giacché l’essenza delle nevrosi consiste in ultima analisi in un’estraniazione dall’istinto, in una scissione della coscienza da determinati elementi psichici fondamentali. Ecco quindi che le concezioni illuministiche rivelano improvvisamente una stretta parentela con i sintomi nevrotici. Come questi, sono in realtà un pensare distorto che si sostituisce al pensiero psicologicamente giusto, il quale rimane legato al cuore, alla profondità dell’anima, alla stirpe. Giacché – illuminismo o no, coscienza o no – la natura si prepara alla morte. Se noi potessimo osservare direttamente e registrarne i pensieri di un giovane quando egli ha tempo e agio di sognane, potremmo individuare, accanto ad alcune immagini mnesiche, soprattutto delle fantasie rivolte all’avvenire. Effettivamente la maggior parte delle fantasie consiste in anticipazioni. Le fantasie sono quindi per lo più azioni preparatorie, o addirittura veri esercizi psichici per determinate realtà future. Potendo fare lo stesso esperimento con un individuo più anziano – senza che, s’intende, esso se ne accorga – troveremmo naturalmente, in chi è rivolto al passato, un maggior numero di immagini mnesiche che non nell’uomo giovane; ma accanto a quelle un numero straordinariamente grande di anticipazioni dell’avvenire, compresa la monte. Col passane degli anni, i pensieri della monte si fanno straordinariamente più frequenti. Lo voglia o no, l’uomo che invecchia si prepara alla morte. Penso perciò che la natura stessa provveda a una preparazione in vista della fine. Di fronte a ciò è indifferente, da un punto di vista obiettivo, quel che pensi sull’argomento la coscienza individuale; ma soggettivamente fa una gran differenza se la coscienza vada di pari passo con l’anima oppure si abbarbichi a pensieri che il cuore ignora. Giacché il non prendere posizione di fronte alla monte come scopo è nevrotico quanto il reprimere durante la giovinezza le fantasie rivolte all’avvenire.
Nella mia non breve esperienza psicologica io ho fatto una lunga serie di osservazioni su persone di cui ho potuto seguire l’attività psichica inconscia fino all’immediata prossimità della monte.
In genere la fine vicina veniva indicata con i simboli con cui anche nella vita normale si allude a mutamenti di stato psicologico: simboli di rinascita, mutamenti di luogo, viaggi e simili. Parecchie volte ho potuto seguire, in lunghe serie di sogni, per più d’un anno, gli accenni alla monte prossima: e ciò anche quando la situazione esteriore non giustificava pensieri di tal genere. Il morire cominciava dunque assai prima della monte effettiva. Ciò si rivela del resto, anche più sovente, con un tipico mutamento di carattere, che può precedere di molto la morte. In genere fui sorpreso nel vedere quanto poco conto l’anima inconscia facesse delta morte. La morte dovrebbe quindi essere un qualche cosa di relativamente inessenziale, oppure la nostra anima non si cuna affatto di quel che accade all’individuo. Pare invece che l’inconscio si preoccupi assai più del modo come si muore: e cioè se l’atteggiamento della coscienza corrisponda o no al morire. Ebbi così una volta in cura una Signora di 62 anni, ancor florida e piuttosto intelligente. Non le mancava la capacità di comprendere i suoi sogni; era invece fin troppo evidente che, ahimè, non voleva capirli. Erano sogni molto chiari, ma altrettanto sgradevoli. Essa si era messa in capo di essere una madre modello, ma i figli non erano di quell’opinione e anche i sogni testimoniavano di un giudizio del tutto opposto. Dopo qualche settimana di lavoro infruttuoso fui costretto a sospendere il trattamento perché richiamato in servizio militare (si era al tempo della guerra). Nel frattempo la paziente si ammalò di un male incurabile, che la condusse in pochi mesi a uno stato grave, che poteva significare la fine a ogni istante. Per la maggior parte del tempo quella Signora era in preda a una specie di delirio o di sonnambulismo, e riprese spontaneamente in quella situazione spirituale particolare il lavoro analitico precedentemente interrotto. Prese a parlare dei suoi sogni, riconoscendo tutto ciò che mi aveva prima tenacemente negato. Quel lavoro autoanalitico durò sei settimane per qualche ora al giorno. Alla fine di quel periodo essa si acquietò come un malato in trattamento normale, e quindi morì.
Questa e altre esperienze simili m’inducono a ritenere che quanto meno il morire dell’individuo non sia indifferente alta nostra anima; l’impulso a raddrizzane tutti i torti, tanto frequente nei moribondi, è un’indicazione in tale senso. Il problema dell’interpretazione ultima di simili esperienze oltrepassa la competenza di una scienza empirica ed è al di sopra delle nostre possibilità intellettuali, giacché per arrivare a una conclusione occorrerebbe aggiungere l’esperienza della morte. E, disgraziatamente, la morte pone l’osservatore in uno stato che non gli consente più di comunicare obiettivamente la propria esperienza e le conclusioni che ne risultano.
La coscienza si muove fra strette barriere, tese entro un breve tratto di tempo, dall’inizio alla fine; e anche quel tempo resta accorciato di circa un terzo per il sonno periodico. La vita del corpo dura un poco di più: infatti inizia prima e spesso cessa più tardi della coscienza. Principio e fine sono gli aspetti inevitabili di ogni processo. Tuttavia esaminando le cose più dappresso, riesce estremamente difficile indicare dove una cosa incominci e dove abbia termine; giacché fatti e processi, inizi e termini, costituiscono a rigore un continuo indivisibile. Noi dividiamo i processi per distinguerli e riconoscerli, pur sapendo che in fondo ogni separazione è arbitraria e convenzionale. Con ciò non pregiudichiamo la continuità dell’universo, poiché “inizio” e “fine” sono soprattutto necessità del nostro cosciente processo di conoscenza. Possiamo penò affermare con sufficiente certezza che una coscienza individuale è per noi giunta al termine; ma che sia interrotta con ciò anche la continuità del processo psichico, rimane dubbio; giacché oggi non ci sentiamo di sostenere con altrettanta sicurezza come soltanto cinquant’anni fa che la psiche sia prigioniera del cervello. Occorre che la psicologia finisca di digerire certi fatti parapsicologici: ciò che essa non ha neppure incominciato a fare.
Pare infatti che la nostra psiche inconscia possieda proprietà che gettano una nuova e strana luce sui suoi rapporti con lo spazio e col tempo. Si tratta di quei fenomeni telepatici, spaziali e temporali che, come sappiamo, e più facile ignorare che spiegare. La scienza, salvo poche e notevoli eccezioni, ha sinora assunto la posizione più comoda; ma occorre convenire che le cosiddette capacità telepatiche della psiche hanno creato molti rompicapi, non certo sciolti dalla magica parola “telepatia”. La limitazione spazio-temporale della coscienza è cosa talmente prepotente, che ogni eccezione a tale verità fondamentale costituisce un fatto della massima importanza teoretica; giacché si potrebbe provare con esso che quella limitazione è una destinazione eliminabile. A determinare quell’eliminazione sarebbe la stessa psiche, a cui quindi la spazio-temporalità spetterebbe tutt’al più come una proprietà relativa, e cioè condizionata. La barriera della spazio-temporalità potrebbe anche essere infranta; e ciò necessariamente per mezzo della sua proprietà essenziale di essere relativamente extra spazio-temporale. Questa possibilità, per me molto probabile, è di una tale incalcolabile portata che dovrebbe spingere ai massimi sforzi lo spirito di ricerca. L’attuale sviluppo della coscienza è invece tanto arretrato (e le eccezioni confermano la regola) che il nostro armamentario scientifico e concettuale è affatto inadeguato per apprezzane sufficientemente i fatti della telepatia nel loro significato per l’essenza della psiche. Mi sono limitato ad accennare a questo gruppo di fenomeni, per rilevare come l’imprigionamento della psiche nel cervello, e cioè la sua limitazione spaziotemporale, non sia per nulla così indubbia e incrollabile come si è creduto sinora.
Chi conosca appena la documentazione parapsicologica abbastanza seria di cui già disponiamo, sa che i cosiddetti fenomeni telepatici sono fatti incontrovertibili. Un vaglio obiettivo e una critica delle osservazioni fatte può stabilire l’esistenza di percezioni che accadono in parte come se non ci fosse lo spazio e in parte come se non ci fosse il tempo. Non si può naturalmente trarne da ciò una conclusione metafisica, nel senso che per l’essenza delle cose lo spazio e il tempo non esistano, e che quindi lo spirito umano sia avviluppato nelle categorie dello spazio e del tempo come in una nebbia illusoria. Spazio e tempo, oltre a costituire le certezze più immediate e spontanee, sono senz’altro evidenti empiricamente, giacché tutto ciò che è percettibile accade come se si svolgesse nello spazio e nel tempo. Di fronte a una tale certezza predominante è comprensibile che l’intelletto faccia gran fatica a riconoscere il carattere peculiare dei fenomeni telepatici. Ma ove ci si attenga ai fatti, non si può non riconoscere che l’apparente extra spazio-temporalità ne costituisce l’essenza più propria. L’evidenza e la certezza immediata sono a rigore soltanto dei mezzi di prova per un a priori psicologico della forma della rappresentazione, la quale non ammette comunque altre forme. Il fatto che le nostre capacità di rappresentazione non siano assolutamente in grado di immaginane una forma di realtà extra spazio-temporale, non prova però che una tale realtà non sia possibile. E come non si può trarre dal carattere di apparente extra spazio-temporalità una conclusione assoluta circa il fatto di una forma di esistenza aspaziale e atemporale, non è neppur lecito, in base all’apparente qualità spazio-temporale della percezione, affermare che non possano esservi forme di realtà extra spazio-temporali. Tuttavia il dubbio sulla validità assoluta della rappresentazione spazio-temporale non è soltanto lecito ma – tenuto conto dell’esperienza attuale – addirittura doveroso. L’ipotetica eventualità che alla psiche competa anche un’esistenza extra spazio-temporale costituisce perciò, fino a prova contagia, un serio problema scientifico. Le idee e i dubbi della fisica teorica contemporanea dovrebbero pur rendere guardingo anche lo psicologo: giacché cosa significa in fin dei conti la “limitatezza dello spazio” considerata filosoficamente, se non una relativizzazione della categoria spaziale? E anche alla categoria temporale (come alla causalità) potrebbe accadere qualcosa di simile. I dubbi in proposito sono oggi meno campati in aria di quanto sarebbero stati una volta.
L’essenza della psiche si estende in tenebre che sono molto al di là delle nostre categorie intellettuali. L’anima contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l’universo con le sue galassie, di fronte al cui sublime aspetto soltanto uno spirito privo di fantasia può non riconoscere la propria insufficienza. Data quest’estrema incertezza delle concezioni umane, la presuntuosa faciloneria illuministica non è soltanto ridicola, ma desolatamente priva di spirito. Se dunque qualcuno dovesse trarre dall’esigenza di un suo intimo sentimento, oppure in concordanza con alcune antichissime dottrine dell’umanità o dal fatto psicologico che esistono percezioni “telepatiche”, la conclusione che la psiche partecipi profondamente a una forma di realtà extra spazio-temporale e appartenga quindi a ciò che in modo inadeguato e simbolico viene detto “eternità”, l’intelletto critico non potrebbe contrapporgli altro argomento che uno scientifico non liquet (non è chiaro). Questo qualcuno godrebbe inoltre del vantaggio non disprezzabile di trovarsi in armonia con una “inclinazione” dell’anima umana, esistente da tempo immemorabile e universalmente diffusa. Chi invece, per scetticismo o per ribellione alla tradizione o per mancanza di coraggio o per superficialità di esperienza psicologica o per spensierata ignoranza, non traesse questa conclusione, avrebbe per sé non solo una piccolissima probabilità statistica di diventare un pioniere dello spirito, ma anche la certezza di mettersi in contraddizione con le verità del suo sangue. Che in ultima analisi queste siano poi verità assolute o no, non lo potremo mai provare. Basta che esse siano presenti come “inclinazioni”, e sappiamo a sufficienza che cosa significhi mettersi inconsideratamente in conflitto con queste “verità”. È come un non voler tener conto degli istinti, e cioè: sradicamento, disorientamento, assurdità, o come si vogliano chiamare tutti quei sintomi di minorazione. Uno dei più funesti errori, sociologici e psicologici, di cui è tanto ricco il nostro tempo, è quello per cui si pensa che una cosa possa diventare un’altra in un dato istante; ad esempio che l’uomo possa mutare radicalmente, o che possa essere trovata una formula o verità che costituisca un cominciamento del tutto nuovo, e così di seguito. È sempre stato un miracolo se in genere una cosa ha mutato nella sua essenza o è addirittura diventata migliore. Uscire dalle verità del sangue provoca una irrequietezza nevrotica, di cui dovremmo già essere sazi. L’irrequietezza crea assurdità e l’assurdità della vita è una malattia dell’anima che il nostro tempo non ha ancora compreso in tutta la sua estensione e in tutta la sua portata.
da “Realtà dell’Anima” – 1934