A settant’anni dalla morte, i resti del re che ha regnato più a lungo nel nostro Paese sono rientrati in patria. Ad accoglierli il prevedibile coro di polemiche e di richiami storici, spesso sballati. Probabilmente ci vorranno ancora molti anni prima che un giudizio storico ponderato e sereno riconosca a Vittorio Emanuele III il suo vero ruolo nelle maggiori vicende della storia d’Italia della prima metà del Novecento
Dal 16 dicembre 2017 i resti di re Vittorio Emanuele III riposano nel santuario di Vicoforte (Cuneo), dove sono stati traslati da Alessandria d’Egitto. In contemporanea, è giunta da Montpellier la salma della sua sposa, la regina Elena. La decisione di riportare in patria le salme dei sovrani è stata presa dalla nipote, la principessa Maria Gabriella di Savoia, coadiuvata dalla Consulta dei senatori del regno presieduta da Aldo Alessandro Mola. I Savoia hanno espresso la loro gratitudine al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che accolse il voto rivoltogli il 10 maggio 2017 dal principe Vittorio Emanuele e dalla principessa Maria Gabriella, anche a nome delle sorelle, a congiungere le auguste salme nella Patria che tanto amarono, in vista del 70° della morte di Vittorio Emanuele III (28 dicembre 1947) e del centenario della vittoria nella Grande Guerra.
Ricordiamoli, dunque, i due sovrani che hanno regnato più a lungo sull’Italia iniziando dalla figura della Regina, che si distinse in ogni attimo della sua vita nelle opere di carità cristiana e di assistenza ai malati. Nata nel 1871 a Cettigne, nel piccolo Stato balcanico del Montenegro, sposò l’erede al trono d’Italia nel 1896, dunque all’età di 23 anni, dopo essersi convertita dalla fede ortodossa a quella cattolica. All’atto del matrimonio, lo sposo aveva 27 anni. La loro storia d’amore fu esemplare fino all’ultimo giorno. Si vollero sempre bene, non si tradirono mai. Ebbero cinque figli: Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e Maria Francesca. Il primo, drammatico evento che permise agli italiani di rendersi conto della straordinaria personalità della regina Elena fu il terremoto di Messina del 1908. Elena si precipitò in Sicilia e si dedicò per intere settimane a soccorrere e aiutare le famiglie colpite. Non fu che l’inizio della sua storia di altruismo. Durante la Grande Guerra del 1915-18 non smise mai di operare come infermiera della Croce Rossa e trasformò in ospedali il Quirinale e Villa Margherita. Ottenuta la laurea honoris causa in medicina, si impegnò a tempo pieno contro le malattie, specialmente contro l’encefalite, la tubercolosi, la poliomielite, il morbo di Parkinson, ma soprattutto contro il cancro. In considerazione del suo operato, nel 1937 il pontefice Pio XI le conferì la «Rosa d’oro della cristianità».
Dopo l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione dell’Italia da parte dei tedeschi, dovette affrontare il terribile dolore della tragica morte della figlia Mafalda. Arrestata dalle SS tedesche a Roma, dove si riteneva al sicuro essendo la moglie del principe e ufficiale tedesco Filippo d’Assia, Mafalda fu trasportata e rinchiusa nel lager di Buchenwald, dove, gravemente ferita durante un bombardamento alleato, fu scientemente lasciata morire dissanguata dal personale medico tedesco, in esecuzione di precise disposizioni giunte da Berlino, a seguito della scoperta che anche il principe Filippo d’Assia, marito di Mafalda, si era schierato con gli oppositori di Hitler. La principessa Mafalda fu quindi sacrificata per vendetta sia contro re Vittorio Emanuele III, sia contro Filippo d’Assia. La regina Elena non venne mai meno al suo compito di sposa fedele. Dopo l’abdicazione del Re, lo seguì in esilio ad Alessandria d’Egitto, dove visse accanto a lui fino al giorno della sua morte, il 28 dicembre 1947. Rimasta vedova, si stabilì a Montpellier, dove il cancro, contro cui si era sempre battuta, la spense il 28 novembre 1952. È in corso il suo processo di beatificazione, avviato dalla Chiesa in considerazione delle infinite opere di bene da lei compiute. E veniamo a Vittorio Emanuele III. Quando si parla del sovrano sotto il cui regno l’Italia ha combattuto le due guerre mondiali del Novecento, si tende generalmente a criticarne il ruolo e il comportamento. Al sovrano passato alla storia come «il Re Soldato» si attribuisce ad esempio la responsabilità di avere consentito al Fascismo di impadronirsi dell’Italia. Non è esatto. Chi continua ad accusare Vittorio Emanuele III di non avere mai contrastato il ventennio mussoliniano, ignora che Mussolini nell’ottobre 1922 venne incaricato di formare un nuovo governo col placet di molti importanti leader liberali e che quell’esecutivo era un governo di coalizione dove i ministri fascisti erano in minoranza così come il PNF lo era alla Camera (poco più di 30 deputati). Eppure il governo Mussolini ebbe il voto favorevole sia della Camera dei Deputati che del Senato. Del resto, tutte le decisioni del regime fascista, fino a tutto il 1943, trovarono sempre l’adesione della stragrande maggioranza degli italiani. Troppo facile adesso scaricare tutto sulle spalle del solo Vittorio Emanuele III che anzi rappresentò in più occasioni un contraltare alle spinte totalitarie che il Regime aveva sempre più spesso.
Un’altra accusa ricorrente è quella di avere lasciato Roma all’indomani dell’8 settembre (data dell’armistizio tra l’Italia e le potenze alleate) per quella che la vulgata ufficiale continua a definire «la fuga a Brindisi». Non è però corretto dimenticare che Roma era ormai da settimane sotto il controllo militare delle truppe di Hitler. E dimenticare che analoga decisione fu presa dai re di Jugoslavia, Norvegia e d’Olanda, pur di non cadere nelle mani della Wehrmacht tedesca, e che persino il re Giorgio VI d’Inghilterra aveva progettato la fuga in Canada nel caso d’invasione della Gran Bretagna da parte dei tedeschi. E come non ricordare che anche il governo francese abbandonò Parigi nel giugno 1940 poco prima dell’arrivo dei tedeschi per rifugiarsi a Bordeaux, sempre in territorio francese. Esattamente quello che fece il governo italiano nel settembre 1943 quando di fronte alla minaccia di vedere Roma attaccata dai tedeschi preferì trasferirsi a Brindisi, sempre in territorio italiano e, in quel momento, non occupato dagli anglo-americani né men che meno dai tedeschi. Vittorio Emanuele III quindi non provvide a mettere in salvo se stesso, ma il capo della nazione, il Re d’Italia. Nell’interesse primario della Patria, che solo nella continuità della struttura statale avrebbe potuto superare il trauma della sconfitta e iniziare la ricostruzione postbellica. In caso contrario, sarebbe diventata terra di conquista ad opera degli eserciti franco-angloamericani. Che invece della definizione di «liberatori», avrebbero potuto fregiarsi di quella di «conquistatori». Certo, prima di lasciare la capitale i responsabili dell’esercito avrebbero potuto diramare istruzioni più precise e tempestive ai reparti dislocati sui vari fronti per evitare il disastro dello sbandamento generale. Ma di quel disastro non si può certo incolpare in prima battuta il sovrano.
Nato a Napoli l’11 novembre 1869 da re Umberto I e da sua moglie, la regina Margherita duchessa di Genova, Vittorio Emanuele sale al trono l’11 agosto 1900, a seguito dell’assassinio del padre, ucciso a Monza il 29 luglio precedente dall’anarchico Gaetano Bresci. Re Vittorio è diverso dal padre, che era uomo intransigentemente di destra, conservatore e militarista. Non cerca vendette, non aizza la polizia, anzi agevola gli sforzi degli uomini politici liberali, in particolare Giolitti, per una politica di «appeasement» con la sinistra. È però favorevo le alla guerra di Libia (1911-12) e, nel 1915, si schiera a favore degli interventisti, malgrado la maggioranza del Parlamento sia contro la guerra scoppiata tra la Triplice Intesa (Russia, Francia e Gran Bretagna) e gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria). Circa l’interventismo di Vittorio Emanuele III, è opportuno rifarsi ad un evento storico: l’inaugurazione del monumento a Garibaldi e ai Mille a Quarto, vicino Genova, il 5 maggio 1915. Gabriele D’Annunzio era giunto in città il giorno precedente da Parigi, invitato a tenere il discorso inaugurale del nuovo monumento agli uomini della spedizione di Giuseppe Garibaldi. Per il Vate l’occasione era ghiotta, anzi unica. Il discorso patriottico sull’impresa dell’eroe dei Due Mondi poteva trasformarsi in un appello al Re d’Italia affinché scegliesse la discesa in campo accanto all’Intesa e contro il tradizionale nemico: l’austriaco. Avrebbe dovuto essere presente anche Vittorio Emanuele III ma, data la delicata situazione politica del Paese, il sovrano rimase a Roma inviando però un telegramma che voleva significare: «Sono accanto a voi. La penso come voi». Eccone il testo: «Se cure di Stato, mutando il desiderio in rammarico, mi tolgono di partecipare alla cerimonia che si compie costà, non si allontana però oggi dallo scoglio di Quarto il mio pensiero. A codesta fatale sponda del Mar Ligure, che vide nascere chi primo vaticinò l’unità della Patria e il Duce dei Mille salpare con immortale ardimento verso le immortali fortune, mando il mio commosso saluto. E, con lo stesso animoso fervore di affetti che guidò il mio Grande Avo, dalla concorde consacrazione delle memorie traggo la fede nel glorioso avvenire d’Italia». Non per nulla, D’Annunzio diede inizio al suo discorso con queste precise parole: «Maestà del Re, assente, ma presente!».
Quando i giornali riportarono i passi principali del discorso di Quarto, il generale Cadorna, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate italiane, allarmato, si fece ricevere dal primo ministro Antonio Salandra. Di fatto, quello di D’Annunzio era un proclama di guerra. Ma il patto segreto di Londra che sanciva l’alleanza italiana con Francia e Gran Bretagna era cosa ormai fatta. E Sua Maestà aveva dato il suo beneplacito. Malgrado l’assenza del sovrano «presente in spirito» e del governo, la cerimonia di Quarto fu grandiosa. Su un mare di teste e di bandiere il telegramma del Re scese come una promessa di guerra. Mentre a Quarto si svolgeva la grandiosa cerimonia e la folla coronava l’orazione del poeta con il grido di «Viva Trento e Trieste! Viva la guerra!», manifestazioni patriottiche avvenivano in tutta Italia e a Roma si riuniva il Consiglio dei Ministri che comunicava di aver denunciato il trattato della Triplice Alleanza.
Durante la guerra, la popolarità di re Vittorio crebbe notevolmente, perché non si risparmiò mai in nessuna occasione. Era sempre in prima linea, accanto ai soldati, e, dopo la disfatta di Caporetto (ottobre 1917), fu lui a evitare il tracollo dell’Italia con una mossa decisa: affrontò, a Peschiera, il vertice con gli alleati che avrebbero voluto imporre all’Italia la loro strategia (abbandono del Veneto e della Lombardia fino al Ticino e al Po e sostituzione di Cadorna col Duca d’Aosta) e ne uscì alla grande, convincendo gli alleati a dare il massimo appoggio all’Italia, costringendoli ad accettare la strategia italiana di resistenza a oltranza sul Piave, poi sostituendo sì Cadorna, ma con un generale scelto dal sovrano, non dagli stranieri: Armando Diaz. Fu in quell’occasione che si meritò l’appellativo di «Re soldato». Ma vediamo come si giunse a Peschiera. Il summit a Peschiera del Garda si svolse l’8 novembre 1917. Nel corso della rotta di Caporetto, in due settimane, gli austroungarici erano riusciti ad annientare la 2a Armata, parte della 4a Armata e tutte le formazioni impegnate in Carnia. Si era salvata soltanto la 3a Armata, comandata da Armando Diaz. Tragico il bilancio: 40 mila tra morti e feriti, 265 mila prigionieri, perduti 3.200 pezzi d’artiglieria, tremila mitragliatrici, 1.750 bombarde. Più di trecentomila sbandati erano stati raccolti nelle retrovie in vista della costituzione di nuovi reparti. Senza tener conto delle fucilazioni dei «disertori» delle quali è meglio dimenticare il numero per carità di patria. Il nuovo fronte era tenuto a fatica dalla 3a Armata e dai resti della 4a tra il Grappa e il Montello, lungo il corso del Piave. Gli Alleati avevano una sola preoccupazione: valeva la pena distrarre forze dal fronte francese per aiutare gli italiani? Questo il grande dubbio che gravava sul vertice militare italofranco-inglese convocato a Rapallo il 6 novembre. Per prima cosa, gli alleati lasciarono intendere di volere la rimozione di Cadorna dal comando supremo dell’Esercito. Era un personaggio scomodo, inviso soprattutto a Foch (disistima che il Generalissimo italiano contraccambiava) che avrebbe impedito agli alleati di controllare le operazioni sul fronte italiano, ed era un comodo capro espiatorio. Il Re decise che li avrebbe accontentati solo in parte, condizione necessaria perché gli alleati fossero disposti a fornire truppe da porre sotto comando italiano, mettendo comunque a capo del suo Stato Maggiore un uomo tutt’altro che prono alla volontà degli alleati.
Il 7 mattina fu deciso di ritrovarsi il giorno successivo a Peschiera del Garda dove sarebbe arrivato anche il Re. Il quale giunse puntuale, alle 10, accompagnato dal primo ministro Vittorio Emanuele Orlando. Il luogo del summit era una ex scuola elementare trasformata in comando di battaglione. Una antica struttura, priva di quadri, di statue, di bandiere. Un solo tavolo grezzo al centro del salone, qualche sedia, una stufa in terracotta per ripararsi dal freddo. La riunione durò due ore. Presiedeva il Re che, parlando in perfetto inglese, dopo avere esposto la consistenza delle nostre forze, smentì le notizie sul morale dei nostri soldati, che definì assolutamente in grado di garantire la difesa del territorio italiano. Più problematico ricacciare gli austrotedeschi senza l’indispensabile appoggio delle forze alleate. Riuscì a convincerli: era un soldato che parlava a soldati. Come dimostrò il proclama scritto di pugno da Vittorio Emanuele III all’indomani del vertice: «Italiani, cittadini e soldati! Siate un esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d’Italia suoni così nelle trincee come in ogni remoto lembo della Patria, e sia il grido del Popolo che combatte, del Popolo che lavora. Al nemico che, ancor più che sulla vittoria militare, conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siam pronti a dar tutto, per la vittoria, per l’onore d’Italia!».
Sostituito Cadorna con Diaz, il 12 novembre giunsero a Vicenza due divisioni francesi e a Mantova due inglesi. Tra il 20 novembre e il 2 dicembre, altre cinque divisioni (tre francesi e due britanniche) arrivarono a rafforzare il fronte [ma nell’immediato della prima battaglia d’arresto sul Piave le forze anglofrancesi non vennero impiegate, rimanendo in riserva NdR]. La battaglia del Piave poteva iniziare. Si sarebbe conclusa a Vittorio Veneto esattamente un anno dopo.
La popolarità e il prestigio che Vittorio Emanuele III si era guadagnato nell’opinione pubblica nazionale furono determinanti in quel fatale ottobre 1922 che vide il movimento fascista fondato da Benito Mussolini, e sostenuto dai più noti e popolari combattenti della Grande Guerra, lanciare la sua sfida definitiva al governo dopo due anni di sanguinosi scontri con la sinistra dei socialisti e dei comunisti. Fu infatti sua la scelta di aprire la «stanza dei bottoni» al Fascismo, il 28 ottobre, allorché rispose no al presidente del consiglio Facta e al proprio aiutante di campo, generale Cittadini, che lo sollecitavano a firmare il decreto di stato d’assedio per bloccare con la forza la marcia su Roma dei fascisti. Se lo avesse fatto, fiumi di sangue sarebbero scorsi nelle nostre città. Ebbe così inizio il ventennio fascista, che si aprì dunque con un colpo di Stato, sia pure «legalitario», e si concluderà con un altro colpo di Stato, anch’esso «legalitario»: l’ordine del giorno del Gran Consiglio seguito dall’arresto di Mussolini. Eventi entrambi un po’ subìti, e un po’ voluti da re Vittorio.
Per tutto il Ventennio, sostanzialmente fedeli alla monarchia si mantennero i grandi poteri giudiziari di controllo (Corte di Cassazione, Corte dei Conti, Consiglio di Stato), il Senato, soprattutto l’Esercito. Ciò consentirà al Re di dare il via alla defenestrazione di Mussolini, attuata con la collaborazione del Gran Consiglio del Fascismo la notte sul 25 luglio 1943. Trasferiti i vertici dello Stato a Brindisi, onde sottrarli alla violenza tedesca, Vittorio Emanuele dichiara guerra alla Germania e insiste per dar vita a una forza armata in grado di partecipare alla liberazione dell’Italia dal tedesco invasore. Accoglie poi i suggerimenti dei suoi consiglieri Benedetto Croce, Luigi Einaudi ed Enrico De Nicola, che lo spingono a farsi da parte. Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma, affida al figlio Umberto la luogotenenza generale del Regno e il 9 maggio 1946 abdica a suo favore, imbarcandosi, con la Regina, su una nave da guerra che lo conduce nell’esilio di Alessandria d’Egitto, dove muore il 28 dicembre 1947.