La natura non è soltanto bella. Svolge anche funzioni essenziali alla nostra sopravvivenza. Abbiamo quindi il dovere (anche morale) di preservarla
Biodiversità: una parola nuova per un aspetto antico del nostro Pianeta. Anche se nato solo negli anni Ottanta del secolo scorso, il termine descrive una serie di caratteristiche dell’ecologia che hanno ripercussioni rilevantissime sulla vita umana. Come definirla, però?
Stuart Pimm, uno dei più importanti ecologi del Ventesimo secolo, sottolinea quanto il concetto sia ampio: «La descrizione che preferisco è quella di “geni, specie ed ecosistemi”», spiega lei. «Io studio la perdita della diversità delle specie viventi. Ma stiamo perdendo anche la diversità genetica (vedi articolo seguente, ndr) e quella della nostra specie: la diversità culturale umana si impoverisce a un ritmo spaventoso». Sono tutti livelli interconnessi, e sono tutti importanti.
VALORI E LIVELLI
Tra i non addetti ai lavori, tuttavia, la biodiversità è percepita per lo più come una qualità intrinseca e positiva di un ambiente, che riguarda il numero di specie che lo popolano. Questo numero è sempre stato considerato una prima e importantissima indicazione della complessità degli ecosistemi, anche se per gli ecologi non tutte le specie, né le loro combinazioni, hanno lo stesso valore. Infatti, un ambiente con un certo numero di specie non è necessariamente più “diverso” da uno con un numero inferiore. Se nel primo la maggioranza degli individui appartiene a una o due specie soltanto, mentre nel secondo le entità sono più distribuite, quest’ultimo potrebbe essere più equilibrato. C’è poi un ulteriore livello: quello funzionale. Il livello funzionale prende in esame aspetti degli ecosistemi importanti anche per gli esseri umani. Sono quelli legati alla resilienza, cioè alla capacità di tornare alla struttura originaria dopo aver subìto delle perturbazioni, legate per esempio a eventi climatici estremi o a episodi di inquinamento.
UNA STORIA DI ALTI E BASSI
La complessità degli ambienti terrestri, misurata con questi parametri, non è sempre stata la stessa. All’inizio della storia della vita sulla Terra, le specie erano pochissime. I cambiamenti indotti dalla vita, come l’arricchimento di ossigeno in atmosfera, e la colonizzazione di nuovi ambienti, come la terraferma, hanno reso disponibili nuovi spazi. C’è stato è vero un andamento altalenante, perché la storia della vita è punteggiata da alcune grandi estinzioni. Ma dopo questi episodi, la biodiversità è sempre andata aumentando, fino ad arrivare ai giorni nostri, caratterizzati da una nuova ondata di estinzioni. In realtà, afferma Stuart Pimm, «non mi piace il termine “sesta estinzione”, perché penso che sia difficile confrontare ciò che sta accadendo adesso con le ere geologiche passate».
Ma per avere un quadro chiaro del fenomeno attuale occorre anche definire quali sono le regioni della Terra più ricche di specie, quelle che gli ecologi chiamano hotspot di biodiversità, e perché lo sono. Per riuscirci non si possono contare tutte le specie presenti, ma occorre restringere il censimento a quelle che conosciamo meglio: per esempio i mammiferi,ogli uccellio le farfalle. Le analisi, che si sono susseguite per anni, sono quasi sempre arrivate alla stessa conclusione: le regioni più ricche di biodiversità sono quelle tropicali, in particolare le foreste equatoriali e le barriere coralline. Passando dalle regioni artiche all’Equatore, la biodiversità aumenta in modo quasi lineare.
A NOSTRO VANTAGGIO
Una volta conosciute tutte queste storie della vita, si arriva al punto cruciale. Perché tutto questo parlare di biodiversità, di numero e interazione tra le specie? A cosa servono tutti questi animali e piante, per la specie umana? Pimm riassume tutto in una frase: «L’importanza è nelle “tre e”: etica, estetica ed economia». Grazie alla presenza di un alto numero di specie, la natura porta avanti una serie di “servizi degli ecosistemi”, utili all’umanità. Per esempio, la produzione di ossigeno da parte della vegetazione, oppure quella di legname, o ancora il fatto che nella foresta ci siano specie animali e vegetali che possiamo utilizzare come cibo o per ricavare medicine. L’elenco di questi servizi è immenso. Una delle ultime analisi ne cita almeno 22, classificabili in quattro grandi categorie: la produzione di beni, la regolazione, i servizi culturali e altri che sono alla base dei precedenti. Nei primi rientrano l’agricoltura e la pesca, ma anche la disponibilità di fibre vegetali, di legno e di risorse genetiche e biochimiche. I secondi comprendono la regolazione del clima e la limitazione a possibili malattie, così come la purificazione e il controllo del ciclo dell’acqua e l’impollinazione. Il terzo gruppo contiene gli aspetti culturali e spirituali della biodiversità, e quelli legati all’ecoturismo. L’ultimo comprende essenzialmente la formazione del suolo (la terra si produce anche dalla decomposizione degli esseri viventi), il riciclo dei nutrienti e l’assorbimento di CO2, con il conseguente abbattimento dell’effetto serra di origine antropica. I numeri non mentono. Secondo l’Ipbes, più di due miliardi di persone fanno affidamento sul combustibile legnoso per soddisfare il proprio fabbisogno energetico primario, e circa il 70% dei farmaci utilizzati contro i tumori sono naturali o sono prodotti sintetici ispirati dalla natura. Oltre il 75% delle colture alimentari globali – comprese frutta e verdura e alcune delle più importanti colture da reddito, come caffè, cacao e mandorle – fa affidamento sull’impollinazione animale. Gli ecosistemi marini e terrestri assorbono naturalmente le emissioni di carbonio di origine antropica, con un sequestro lordo di 5,6 gigatonnellate di carbonio l’anno (l’equivalente di circa il 60% delle emissioni antropiche globali).
PROTEGGERE L’AMBIENTE PER SALVARE NOI
Mantenere l’integrità degli ecosistemi serve quindi a conservare nel tempo queste funzioni. Sono tutti servizi che però l’umanità ha considerato da sempre del tutto gratuiti e quasi garantiti dalla natura. Per questo ha fatto pochissimi passi per proteggere gli ecosistemi che li forniscono.
L’abbattimento delle foreste tropicali, la trasformazione di praterie e savane in terreni per le coltivazioni o per il pascolo, l’inquinamentodeimariedell’atmosferaminacciano, oltre alle funzioni a favore dell’umanità, anche l’esistenza stessa di migliaia e migliaia di specie animali e vegetali. E in fondo anche la specie umana. Basti pensare che, dall’inizio della pandemia, si sono susseguiti gli studi che denunciano la distruzione della natura come uno dei fattori più importanti nella diffusione di virus letali per l’umanità.
Tutto questo ha trasformato in parte la scienza dell’ecologia, che ora non si limita più allo studio degli ecosistemi, ma cerca anche di farsì che le specie che li compongono non si estinguano, cercando di salvaguardare innanzi tutto gli hotspot. Proprio Stuart Pimm, insieme ad altri campioni dell’ecologia, ha fondato Saving nature, organizzazione che ha come obiettivo la salvaguardia degli habitat più importanti. E per fare questo, conclude Pimm, «è necessario proteggere più habitat e ripristinare quelli che abbiamo danneggiato».