Così da ragazzo King espresse la sua sofferenza per la discriminazione razziale. Ma si salvò, studiò e diventò il paladino degli afroamericani, trasformando la protesta dei neri in una causa universale. A quasi sessantatré anni dalla morte, i suoi sogni si sono realizzati solo in parte
Era il pomeriggio del 28 agosto 1963: 250mila persone avevano sfilato tutto il giorno a Washington chiedendo il diritto di voto e la parità tra bianchi e neri. Il concentramento finale era davanti al Lincoln Memorial, dove prese la parola Martin Luther King, il pastore battista da anni simbolo della lotta dei neri. «I have a dream» esclamò con la sua voce carismatica e profonda. «Ho un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali». Ancora oggi questo discorso è considerato tra i più importanti del Novecento.
Tale padre, tale figlio
Martin era nato ad Atlanta il 14 gennaio 1929. Suo padre, Martin Luther King senior, discendeva da una famiglia di schiavi, ma era un pastore battista nella parrocchia di Ebenezer e aveva raggiunto una solida posizione economica grazie alla quale poté garantire ai suoi figli (Christine, Martin Luther e Alfred Daniel) un’ottima educazione nelle migliori scuole per neri della città. King senior aveva anche un forte senso della giustizia, tanto che negli anni Trenta attuò una serie di lotte per far registrare quanti più neri possibile nelle liste elettorali e per ottenere la parità salariale con i bianchi per gli insegnanti. Martin si scontrò piccolissimo con i pregiudizi razziali dei bianchi e col passare del tempo il colore della pelle diventò un tale problema da spingerlo a due tentativi di suicidio, buttandosi da una finestra. In qualche modo per fortuna superò la crisi, ma da quel momento curò molto la propria immagine esteriore, guadagnandosi tra gli amici il soprannome di “Tweed”: un modo per far capire ai bianchi, che lo chiamavano col dispregiativo nigger, la sua diversità.
Aveva un grande successo con le ragazze. A 17 anni decise di diventare pastore nella Chiesa battista. A differenza di suo padre voleva approfondire la teologia e quindi si iscrisse il 14 settembre 1948 alla Crozer University di Chester, in Pennsylvania. A quell’epoca era un giovanotto alto e ben piantato, che indossava abiti raffinati cuciti su misura e sfoggiava un paio di baf! alla Clark Gable. In una prestigiosa università a Boston ottenne poi il dottorato in filosofia. Nel frattempo aveva sposato Coretta Scott, una violinista. La coppia si trasferì a Montgomery (Alabama), a circa 200 km dalla casa paterna. King venne nominato il 14 aprile 1954 pastore della piccola parrocchia di Dexter Avenue, con un salario di 4.200 dollari annui.
I primi passi della lotta
King si era iscritto alla sezione locale della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) ma non era affatto impegnato nella lotta per i diritti dei neri. Il 1° dicembre 1955, però, Rosa Parks, una ragazza di colore, venne arrestata per essersi seduta in un autobus sui sedili riservati ai bianchi. La responsabile della sezione femminile della NAACP di Montgomery, Jo Anna Robinson, propose di boicottare per protesta le linee di trasporto pubblico della città. Il 5 dicembre i neri aderirono in massa e gli autobus viaggiarono vuoti. Quella stessa sera venne fondata la Montgomery Improvement Association (MIA) e Martin fu nominato presidente. Più tardi, nella gremitissima chiesa della sua parrocchia, tenne un discorso memorabile: «Questa sera siamo qui per dire a coloro che ci hanno maltrattato per tanto tempo che noi siamo stanchi. Non abbiamo altra alternativa che la protesta». Ma doveva essere una protesta non violenta: fin da subito egli insistette con i suoi compagni di lotta perché non si lasciassero trascinare dalla passione e invece si sforzassero di convincere i loro avversari con l’evidenza delle loro ragioni, accettando di essere messi in carcere per aver violato le ingiuste leggi della segregazione razziale.
Lui stesso fu fatto oggetto di una campagna di intimidazione, fatta di telefonate, sassaiole e perfino una bomba. Venne indagato per frode fiscale. La sua auto fu seguita dalla polizia fin quando non infranse di poco un limite di velocità: una scusa sufficiente per mandarlo in carcere. Intanto il boicottaggio degli autobus continuava. Finalmente il 13 novembre 1956 la Corte suprema degli Stati Uniti confermò che la segregazione razziale sugli autobus era contraria alla Costituzione americana. Così dopo 385 giorni il boicottaggio ebbe termine e King diventò famoso. Ma la lotta per i diritti dei neri era solo all’inizio.
La NAACP si concentrò sulla segregazione nelle scuole e sull’applicazione del diritto di voto. Eppure negli anni successivi la protesta sembrò arenarsi, senza ottenere nessun progresso, anche perché King subì un grave attentato a opera di una squilibrata che lo ferì con un tagliacarte. Il leader rimase a lungo tra la vita e la morte. Ma nel 1960 scesero in campo i giovani della Beat generation: quattro studenti neri di Greensboro (Carolina) si sedettero deliberatamente nella parte riservata ai bianchi in una tavola calda, tentando di farsi servire.
Tornarono il giorno dopo, accompagnati da alcune ragazze bianche che rifiutarono di essere servite fin quando non lo fossero stati anche i loro amici neri. Questa forma di protesta pacifica si diffuse immediatamente: la strategia era detta jail, no bail, ossia si sceglieva di essere trascinati in prigione (jail) e non pagare la cauzione (bail). King appoggiò l’idea e si lasciò portare in carcere più volte. Con un cavillo (una multa per una targa automobilistica non valida) i suoi nemici lo fecero condannare a sei mesi di lavori forzati. Ma John Kennedy, nel pieno della campagna elettorale, si schierò al suo fianco, ottenendo i voti dei neri che gli fecero vincere di stretta misura le elezioni presidenziali.
La marcia di Washington
A Birmingham, Alabama, la questione razziale era esplosiva. Quando l’amministrazione comunale proibì ai manifestanti di tenere i loro sit-in nei negozi e nelle strade, King proclamò la disobbedienza civile, accettando deliberatamente di andare in prigione il 12 aprile 1963. Nei giorni successivi si ebbero scontri violenti tra polizia e manifestanti paci!ci: questi erano così numerosi che alla fine le carceri ne furono stracolme, costringendo le autorità ad accettare le richieste dei manifestanti. Sull’onda dello scandalo di Birmingham, il presidente Kennedy presentò un provvedimento per sancire l’effettiva parità tra bianchi e neri negli USA: fu allora che Coretta, moglie di Luther, ebbe l’idea di una grande marcia a Washington. Il presidente Kennedy tentò di impedirla, sostenendo che il momento non era opportuno. Ma King replicò: «Di tutte le campagne alle quali io abbia partecipato, è sempre stato detto che capitavano al momento sbagliato».
La marcia si tenne il 28 agosto 1963 con enorme successo. King era al culmine della popolarità. Il Time lo elesse uomo dell’anno per il 1964 e lo stesso anno ricevette il Nobel per la pace. Ma lui non era in pace con se stesso: tormentato dai sensi di colpa per i morti alle marce da lui indette, costretto a trascurare i suoi doveri di pastore, viaggiava continuamente per raccogliere i fondi necessari al movimento e soffriva di disturbi del sonno.
Inoltre non riusciva a far breccia nel cuore dei neri delle grandi città degli Stati Uniti settentrionali, che non capivano la strategia della non violenza. Anche per questo King, che negli ultimi anni spinse la sua riflessione pacifista al di là della questione razziale per ri!utare ogni forma di violenza (in particolare la guerra nel Vietnam), decise di trasferirsi in uno slum di Chicago dove accettò di condividere le condizioni di vita dei neri più poveri. Stava progettando una grande Marcia dei Poveri per radunare nella primavera del 1968 tutte le etnie (neri, portoricani, ispanici, indiani) a Washington quando venne chiamato a Memphis, nel Tennessee, per fornire il suo appoggio a uno sciopero locale. Nel suo discorso il 3 aprile 1968 disse: «Non so cosa succederà adesso. Ma non mi interessa. Non sono preoccupato. Come tutti, anch’io desidero vivere a lungo. Ma tutto ciò non mi preoccupa. Desidero solo compiere la volontà di Dio. Egli mi ha concesso di salire in cima alla montagna. Io ho guardato oltre e ho visto la Terra promessa».
Il 4 aprile 1968, mentre si affacciava a un balcone del modesto motel in cui alloggiava, fu colpito al volto da un proiettile di fucile sparato dall’edificio di fronte e morì quasi all’istante.
“Io ho un sogno” disse nel discorso più famoso
«Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho un sogno, oggi!… Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: Paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere». (dal discorso di Martin Luther King alla marcia di Washington, 28 agosto 1963).