Perline di vetro di Murano trovate in Alaska avrebbero anticipato la scoperta dell’America da parte del navigatore genovese
Il 12 ottobre 1492, dopo più di due mesi di navigazione attraverso l’oceano Atlantico, l’esploratore genovese Cristoforo Colombo approda in un isolotto delle Bahamas, da lui ribattezzato San Salvador, “scoprendo” l’esistenza di un nuovo continente. È quella la celebre data in cui, secondo la tradizione storiografica, per la prima volta gli europei e i nativi americani (nello specifico la popolazione indigena dei Taino) si trovano faccia a faccia. O almeno, così ci è stato sempre raccontato. Ora, alcuni studiosi stanno però provando a riscrivere la storia dei rapporti commerciali tra Europa, Asia e America.
TERRA DI CONFINE
A mettere in dubbio la versione “ufficiale” è bastata una dozzina di perline di vetro grandi come un mirtillo (dai 5 ai 7,5 mm di diametro) scoperte lungo la catena dei monti Brooks, in Alaska. In uno studio pubblicato sulla rivista American Antiquity, gli archeologi Mike Kunz, dell’Alaska Museum of the North, e Robin Mills, del Bureau of Land Management, hanno analizzato sia nuovi sia vecchi reperti ritrovati negli insediamenti della zona, concludendo che si tratta dei più antichi oggetti di provenienza europea presenti nel continente americano. Si tratta, nello specifico, di perline in pasta vitrea azzurra prodotte da “canna di vetro forata”, una delle tipologie più comuni nel XV secolo e usate per creare braccialetti, collane e monili. In generale, le prime attestazioni di perle nel Nuovo Mondo si hanno già con l’arrivo di Colombo, che nel suo diario racconta di avere regalato ai Taino delle perline gialle e verdi. Poco dopo, il noto conquistador spagnolo Hernán Cortés avrebbe regalato all’ambasciatore del sovrano azteco Montezuma delle perle “rosetta”, tipiche di Venezia». Non è la prima volta che gli archeologi si trovano di fronte a simili reperti, dunque. Solo nel continente americano, grandi quantità di perline di diversi tipi sono saltate fuori in vari siti, dai Caraibi alla costa orientale degli attuali Stati Uniti, passando per l’America Centrale. Nel caso dell’ultimo ritrovamento, però, c’è una differenza fondamentale: effettuando un’analisi al radiocarbonio con spettrometria di massa sulle fibre vegetali dello spago che univa le perle, infatti, gli studiosi hanno scoperto che la pianta da cui erano tratte (probabilmente un salice) era viva nel corso del 1400. In altri termini, i manufatti sarebbero stati fabbricati in loco tra il 1440 e il 1488 circa, cioè poco prima che le navi di Colombo solcassero l’Atlantico. Per accertare che le perle fossero state prodotte a Venezia, ci si è invece avvalsi di una “analisi per attivazione neutronica”, una tecnica che attraverso i raggi gamma rileva la composizione chimica del campione, a cui alcune delle sfere sono state sottoposte. I risultati hanno mostrato che le perle sono fatte di vetro soda, comune nella manifattura veneziana del Quattrocento.
DALL’ADRIATICO ALLA TUNDRA
Ma come avevano fatto quelle perline a giungere in Alaska? Al riguardo, i ricercatori hanno ipotizzato un avventuroso percorso attraverso tre continenti, che non ha nulla da invidiare a quello dei primi navigatori atlantici. Da Venezia, le perle avrebbero solcato l’Adriatico arrivando sulle coste dell’attuale Turchia, probabilmente a Istanbul, uno dei crocevia più trafficati del Mediterraneo. Da lì avrebbero intrapreso un lunghissimo viaggio via terra verso est percorrendo la Via della Seta, antico percorso che per 8.000 chilometri si snodava da Occidente a Oriente fino alla Cina. Come per molte altre merci, passando di mano in mano le perline fecero probabilmente tappa in alcuni dei principali punti di snodo come Trebisonda, Tabriz, Teheran e Samarcanda. Arrivate poi in territorio cinese, invece di puntare a Pechino, i mercanti che le trasportavano avrebbero a un certo punto deviato verso nord-est, penetrando in Siberia Orientale e arrivando a Chukotka, all’estremo lembo nord-orientale della Russia. A dividerle dal continente americano mancava solo lo stretto di Bering, la striscia di oceano che separa l’Asia dall’America, che sarebbe stata attraversata a bordo di un semplice kayak. Stando allo studio, i mercanti avrebbero navigato in mare aperto per poco più di 80 chilometri, compiendo un’impresa che ancora oggi lascia a bocca aperta. Una volta arrivate in Nord America, le perle sarebbero approdate alla stazione commerciale di Shashalik, antico insediamento situato nella parte nord-occidentale dell’Alaska, a nord dell’attuale Kotzebue. Infine, a piedi o in slitta, avrebbero raggiunto alcuni villaggi dell’entroterra nei pressi dei monti Brooks, dove sono state ritrovate secoli dopo.
MONETA ALTERNATIVA
Gli acquirenti finali delle perline furono le tribù nomadi degli Inuit che abitavano la zona, dedite alla caccia e alla pesca, che le scambiarono con i beni a loro disposizione, come pelli e grasso, fabbricando così braccialetti e collane. Non è un caso che uno dei luoghi principali del ritrovamento sia Punyik Point, una sorta di campo stagionale dove in autunno e primavera si cacciavano caribù e pescavano trote. A Punyik Point erano presenti grandi macchie di salici, dai quali gli indigeni avrebbero tratto le fibre con cui creare i monili. Il sito è una vecchia conoscenza degli archeologi: già negli anni ’50 e ’60 e ancora nel 2004, proprio lì erano venute alla luce perline simili, ma solo oggi i nuovi ritrovamenti, uniti alle analisi scientifiche, hanno reso possibile la loro datazione. Fino a quarant’anni fa, le perle di vetro erano scarsamente considerate dagli archeologi, che spesso le definivano come semplici “oggetti sferici forati”, precisano l’esperti. Fu solo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio gli anni ’80 che alcuni studiosi americani cominciarono a classificarle e datarle, specificandone il luogo di produzione e rendendole elementi preziosi per la ricerca archeologica.
Il commercio delle perle non era affatto una peculiarità del Nuovo Mondo. Oltre a essere facilmente trasportabili e poco deteriorabili, in contesti nei quali non era conosciuta la moneta ma veniva praticato il baratto, le perline di numerose fogge e colori hanno costituito una delle principali merci di scambio. Già dall’VIII-IX secolo erano arrivate in Africa, dove i ricchi imperi del Mali le scambiavano con oro, pellicce o schiavi, alimentando un mercato molto redditizio. Nel XV secolo, Venezia divenne tra i più importanti centri di produzione di perle, primato che conservò per circa cinque secoli. Nel corso del tempo ai veneziani non mancò la concorrenza, per esempio da nazioni come la Boemia e l’Olanda, ma ciò nonostante quella delle perle rimase un’industria molto proficua per la città.
STORIA “PARALLELA”?
Se fosse definitivamente confermato, lo studio di Kunz e Mills aprirebbe nuove prospettive, fino a ora quasi sconosciute, nello studio di reti commerciali pre-colombiane, sulle quali le merci provenienti dall’Europa venivano trasportate per migliaia di chilometri. Una vera rivoluzione, dalla quale scaturirebbe una “storia parallela” rispetto a quella a noi nota. Nella comunità scientifica, però, non tutti sono così entusiasti. Lo studio in questione è serio e documentato, ma su alcuni aspetti permangono legittime perplessità. Tra gli altri, a suscitare dei dubbi c’è la datazione rivelata dall’esame al radiocarbonio, tarata su un arco di tempo troppo ristretto per essere considerata inoppugnabile. C’è inoltre chi ritiene che l’analisi della composizione chimica non sia di per sé sufficiente a supportare la tesi degli studiosi americani. Appoggiandosi a ulteriori prove storiche e archeologiche, alcuni esperti dell’argomento, come l’antropologo Elliot Blair, dell’Università dell’Alabama, ritengono che sia invece improbabile che le perline siano state prodotte prima della fine del XVI secolo. Anche i più scettici, tuttavia, devono ammettere che si tratterebbe dei reperti europei più antichi dell’Alaska, per di più in un’area che si riteneva abitata solo a partire dal XVII secolo. La discussione è aperta, ed è forse tale incertezza a renderla ancora più affascinante.
I VICHINGHI IN AMERICA
Lo sbarco di Cristoforo Colombo in America diede vita a una nuova era di scambi tra l’Europa e il Nuovo Mondo, ma il navigatore genovese non era certo stato il primo europeo a sbarcare sulle coste americane. A precederlo fu, più o meno mezzo millennio prima, l’esploratore vichingo Leif Erikson, figlio del celebre capo Erik il Rosso, già scopritore della Groenlandia. Nato intorno al 970, Leif seguì l’esempio paterno mettendo insieme un piccolo equipaggio di trenta uomini e navigando verso ovest in cerca di nuove terre. Dopo aver solcato l’Atlantico Settentrionale per centinaia di miglia, lui e i suoi uomini arrivarono in un’isola dell’arcipelago canadese ribattezzata Helluland “terra delle pietre piatte”, identificata con l’attuale Baffin. In seguito, ripresero il mare dirigendosi a sud e approdando nella “terra dei boschi” (Markland) sulle coste della regione del Labrador, e infine nella fertile isola di Terranova, a cui diedero il nome di Vinland “terra del vino” o “terra dei pascoli”.
Impresa dimenticata
Rientrato in Scandinavia, poco dopo l’intraprendente navigatore norreno ripeté l’impresa, ritornando a Terranova con navi cariche di coloni pronti a insediarsi nelle terre che aveva scoperto. I Vichinghi finirono per scontrarsi con gli abitanti dell’isola e fecero ritorno a casa. Da allora le imprese di Leif si persero nelle nebbie del tempo per secoli, tornando agli onori delle cronache nel 1960, quando nel sito di L’Anse aux Meadows, all’estremo Nord di Terranova, furono ritrovati resti di strutture e manufatti norreni. Era la prova archeologica dell’arrivo dei Vichinghi in America. L’analisi degli oggetti trovati, tra cui spille, lampade a olio, utensili, indicò che l’area fu abitata dai coloni vichinghi per non più di tre anni (circa fino al 1003).
DOVE TUTTO EBBE ORIGINE
Se c’è un luogo al mondo che è sinonimo di arte vetraria, quello è Venezia. Il primo documento scritto che riporta il nome di un vetraio a Venezia, risale al 982 d.C. Si chiamava Dominicus Fiolarius, ovvero fabbricante di “fiole”, bottiglie; nella città lagunare il vetro si fondeva e si soffiava più di mille anni fa.
In realtà, già i primi abitanti delle isole lagunari, ovvero i cittadini delle città romane sulla costa che fuggirono in laguna per salvarsi dalle invasioni dei barbari, tra la fine del V e il VI secolo d.C., portarono con sé la capacità di produrre vetro, che in epoca romana era un’attività molto diffusa. Si trattava però di una produzione non particolarmente sofisticata: al tempo a Venezia si rifondeva soprattutto vetro grezzo importato o di scarto. L’arte vetraria che divenne nota in tutto il mondo risale infatti a un periodo leggermente più tardo, quello della Venezia bizantina, a partire dal VII secolo, sotto l’esarcato di Ravenna.
La conoscenza della preparazione e fusione della miscela vetrificabile veneziana non poteva che essere di origine levantina. Alcuni studiosi suggeriscono che a portare la tradizione del vetro a Venezia potrebbe essere stata proprio la decisione di produrre i mosaici per le chiese della città, a partire da San Marco. «All’inizio le tessere vitree pare fossero importate, ma da un certo punto in poi qualcuno si mise in testa di produrle. Erano i benedettini. Anche se le fonti che lo attestano sono scarse», scrive Alessandro Marzo Magno nel suo libro Dalla terra al fuoco. Murano e il suo vetro. Con lo scorrere dei secoli, e l’affinamento della tecnica, la Serenissima divenne il baricentro dell’arte vetraria del Medioevo. La laguna diventò una specie di Silicon Valley del vetro: il luogo dove si applicavano le tecnologie più avanzate, lavoravano gli artigiani più capaci e circolavano le idee più innovative. Nel 1291 il doge Pietro Gradenigo portò tutte le fornaci di Venezia a Murano per evitare che la città bruciasse, qualora qualche fornace avesse preso fuoco e visto che la maggior parte delle case erano di legno. In realtà era anche un escamotage per mettere al riparo da occhi indiscreti la tecnologia delle fornaci e per evitare che gli operai entrassero in contatto con gli stranieri. Non solo: «Venezia creò intorno ai propri operai un cuscinetto protettivo, costituito da consistenti privilegi – diritto di cittadinanza, esenzione dalle imposte, autorizzazione al matrimonio con fanciulle di stirpe nobiliare – e da alcune precise minacce preventive», scrive Sabine Melchior-Bonnet nella sua Storia dello specchio.