In inverno, il cibo può essereun’attrazione fatale. Come mai? Colpa dell’evoluzione, del brutto tempo e… del profumo di polenta coi funghi
Prendetevela con Darwin, se alla fine di questo inverno salirete sulla bilancia e lei vi dirà che siete ingrassati. Sarebbe (anche) colpa dell’evoluzione, infatti, se quando il termometro scende il nostro peso tende a salire. Ma non solo: ci sono l’effetto del freddo, la tristezza delle giornate grigie… Tutte cose che in inverno sembrano attirarci verso il cibo. Come mai? Qual è l’effetto dei cibi invernali sul corpo e, soprattutto, sullo spirito? E c’è qualcosa che dovremmo davvero mangiare, in inverno?
LA STAGIONE GRASSA
Se c’è una “stagione grassa”, è l’inverno. Il momento in cui più ci sembra che la fame aumenti, e il peso pure. Il team di Yunsheng Ma, della University of Massachusetts Medical School, ha seguito 593 persone dai 20 ai 70 anni, negli Usa, per contabilizzare le variazioni di cibo, attività fisica e peso in un anno. Ha rilevato il massimo apporto calorico a novembre (86 kcal al giorno in più rispetto al minimo, a maggio), il tracollo dell’attività in dicembre e il picco di peso in febbraio, con una differenza di mezzo chilo. Una media, però, forse sottostimata. Una variazione di 1 kg, anche di 1,5 kg in più alla fine dell’inverno è fisiologica. L’importante è che poi il peso sia perso; accade naturalmente, perché in estate si sta più all’esterno e quindi c’è un aumento di attività fisica persino nei più sedentari, e perché il caldo tende a togliere appetito. Se però i chili restano da un inverno all’altro, diventano gradini verso il sovrappeso.
In inverno, dunque, ci muoviamo meno e tendiamo a pensare più al cibo. Il freddo è solo uno degli elementi in gioco. La fame aumenta se il nostro cervello “rileva” un aumento del consumo di energia, cosa che accade se ci si espone al freddo e si fa attività fisica. Il freddo ci fa bruciare per il fatto di dover mantenere la temperatura corporea: a -10 °C (con vestiti adeguati) il nostro metabolismo basale, il consumo energetico a riposo, aumenta del 10%. Il punto di minor spesa energetica per noi è attorno ai 25 °C: se fa più caldo o più freddo spendiamo per attivare i meccanismi di termoregolazione. Dunque, se ho fatto attività nella neve o lavorato all’esterno, avrò più appetito. In natura il peso del freddo sulla dieta è evidente.
David Raubenheimer (University of Sydney) ha seguito i rinopitechi dorati, scimmie che vivonoin fredde foreste cinesi. Ha dato loro cibo in più, per vedere cosa mangiavano liberamente, e ha visto che in inverno il loro introito energetico raddoppiava: le calorie aggiuntive venivano da carboidrati e grassi, mentre l’apporto di proteine era uguale. L’energia introdotta in più corrispondeva a quella spesa per tenere il corpo caldo.
Il punto è che noi non siamo rinopitechi delle montagne cinesi, e non siamo nemmeno i nostri nonni. Se si sta in un ambiente a temperatura costante – come i nostri uffici o case – la spesa energetica non cambia. Per questo va sfatata l’idea che l’inverno sia il momento di mangiare piatti grassi e carni: era vero per i nostri nonni, che vivevano davvero al freddo, in case meno riscaldate e all’aperto, facevano più attività, erano più magri e non iperalimentati come noi. Un pasto ricco di grassi saturi lo bruciavano subito, stando al freddo. Insomma, un boscaiolo in Lapponia o un ricercatore in Antartide hanno bisogno di una dieta più robusta. Ma noi? No. E non ci sono specifiche necessità nutrizionali per l’inverno, ma sarebbe bene mangiare verdure di stagione come cavoli e altre brassicacee: è l’occasione per aumentare l’apporto di sostanze antitumorali di cui queste verdure sono ricche. Inoltre le verdure di stagione hanno meno residui di pesticidi: subiscono meno trattamenti, necessari invece per le colture in serra. Le arance e altri agrumi possono poi fornire vitamina C: con la D, è la vitamina principale per le difese immunitarie. In inverno la concentrazione ematica di vitamina D scende per la mancanza di esposizione al sole, quindi è bene “abbondare” con la vitamina C. Meglio assumerla con gli alimenti: così si raggiungono livelli moderati nel sangue, ma che durano per ore; invece, con un integratore si ha un picco breve e il resto viene espulso. Un’arancia al mattino e una al pomeriggio forniscono la dose raccomandata giornaliera. Danno vitamina C anche le erbe aromatiche, in inverno disponibili anche essiccate.
AH, LE LASAGNE DI MAMMA
Se non stiamo al freddo, in teoria, non dovrebbe venirci più fame. Ma alla fisiologia si sovrappone la psicologia. Così, per esempio, in inverno a volte aumenta la voglia di “comfort food”: quel cibo che ci consola e fa star bene, associato all’infanzia o alla cucina casalinga, spesso ricco di carboidrati. Dalla crema spalmabile alle lasagne di mamma… «La quantità di comfort food che mangiamo è legata a quanto conforto ci serve. In inverno ci sono meno ore di luce, stiamo più in casa, facciamo meno esercizio fisico e possiamo essere più isolati socialmente: tutto questo può avere un impatto negativo sull’umore e rendere più probabile il ricorso a comfort food e cibi dolci per migliorarlo», spiega Rachel Herz, neuroscienziata della Brown University (Usa) e autrice di Perché mangiamo quel che mangiamo (Edt). «In inverno poi possiamo sentirci più annoiati, soprattutto ora con la pandemia: mangiamo giusto per far qualcosa, e notiamo di più gli stimoli dell’appetito». Alla base dell’effetto anti-tristezza ci sono meccanismi fisiologici e psicologici. «Primo, i cibi ricchi in zuccheri e grassi stimolano i centri del piacere e della ricompensa nel cervello e portano al rilascio di sostanzechecifannoimmediatamentesentire bene: il solo fatto di sentire un sapore dolce ha questo effetto, prima che il cibo sia metabolizzato», continua Herz. «Secondo, il comfort food è spesso legato all’infanzia. I suoi aromi ci riportano a ricordi edemozioni collegate all’accudimento e al conforto, e ciò ci fa sentire bene. Come un caldo abbraccio di mamma».
SEDOTTI… IN TUTTI I SENSI
A farci mangiare ci sono poi le abbuffate delle feste. E il fatto che i cibi invernali possono essere più seducenti. Se caldi, oltre ad avere la piacevolezza del calore, sprigionano più profumi. L’odore di cibo fa partire l’acquolina in bocca e la secrezione dei succhi gastrici, e da esso deriva parte della sensazione di fame. Molti cibi invernali hanno profumi gradevoli e ciò fa aumentare la voglia di mangiarli. Ci si butta più volentieri su una polenta coi funghi che su un’insalata. E, purtroppo per il peso, molti cibi invernali sono “ricchi”. Quelli estivi hanno in genereunaminoredensità calorica: ci riempiono lo stomaco e ci saziano, ma dandoci meno calorie.
Un po’ però sembra anche colpa all’evoluzione, come dicevamo. In inverno avremmo una spinta inconsapevole a mangiare di più, secondo uno studio di Andrew Higginson della University of Exeter (Uk). Abbiamo usato un modello al computer per simulare le strategie di migliaia di individui (animali) rispetto a disponibilità variabili di cibo, per stabilire quale fosse il “livello ottimale” di grasso da accumulare. Il modello predice come le condizioni ambientali determinano le strategie che si evolvono. Il responso del computer non ci stupisce più di tanto. La strategia migliore è accumulare più grasso nei periodi in cui la disponibilità di cibo è incerta, come assicurazione nel caso non se ne trovi altro: per i nostri antenati questo periodo era l’inverno, con risorse scarse e aumento del consumo energetico per riscaldarsi.
C’è da dire, però, che i cibi invernali caldi hanno un gradevole effetto collaterale.Pare che le tisane o le zuppe, oltre a scaldarci, possano renderci più buoni (a parte il periodo delle feste: lì è ufficialmente merito di Babbo Natale).«Alcune ricerche hanno mostrato che il fatto di tenere in mano qualcosa di caldo ci riscalda emotivamente», spiega RachelHerz. Tra queste, lo studio di Lawrence Williams (University of Colorado at Boulder, Usa) e John Bargh (Yale University, Usa). Hanno fatto tenere in mano ai volontari tazze di caffè bollente o freddo, e chiesto loro di valutare la personalità di una persona: i partecipanti con la tazza calda l’hanno giudicata più “calda”, cioè generosa e premurosa. In un altro esperimento, i volontari che avevano tenuto in mano una busta di gel calda tendevano a scegliere un piccolo dono per un amico invece che per sé. Gli studiosi pensano che la sensazione di calore ci riporti al tepore del corpo materno, sperimentato da piccoli: quindi associamo il calore fisico a quello psicologico. Inoltre, entrambe le sensazioni di “caldo” sono elaborate nella stessa zona del cervello, la corteccia insulare. Altri esempi? Alla giapponese Kyushu University hanno mostrato che tenere in mano una tazza vuota calda rendeva le donne (l’effetto non si è notato sugli uomini) più altruiste verso una persona di un’altra comunità. E uno studio di Han-Seok Seo (University of Arkansas, Usa) ha visto che dopo aver mangiato una zuppa calda – piuttosto che a temperatura ambiente – i partecipanti riportavano più emozioni positive.
FELICITÀ È UNA CIOCCOLATA CALDA
Consumare bevande o cibi caldi ci scalda fisicamente e questo può farci sentire brevemente più positivi e calmi. Tuttavia, l’effetto dipende dalle persone e da ciò che si sta consumando: se beviamo tè o caffè caldo ogni mattina, è improbabile che influenzino il nostro umore. Ma una tazza di cioccolata ci fa sentire confortati e contenti: fisicamente per il calore, psicologicamente perché ci concediamo un dolcetto, fisiologicamente per l’azione di zuccheri e grassi. E, a proposito di liquidi che “scaldano”, l’alcol non è tra questi. Dilata i vasi sanguigni, quindi all’inizio ci fa davvero sentire più caldo alle estremità, ma poi tale dilatazione ci fa perdere più calore: se siamo fuori al freddo, quindi, può aumentare il rischio di ipotermia. Meglio il thermos con la tisana.
QUESTIONE DI CULTURA
Non ci sono più le stagioni. «Le differenze stagionali nei consumi sono meno evidenti che in passato. Molti cibi sono disponibili tutto l’anno, e i limiti dell’inverno sono stati rimossi. La composizione del cibo che mangiamo cambia poco, anche se ciò varia a seconda del sesso e nei diversi Paesi», spiega Charles Spence, psicologo della University of Oxford (Uk) che ha concluso uno studio sul tema. «Ritmi stagionali sono però ancora dettati da fattori culturali e psicologici. Per esempio, le feste come Natale o Pasqua fanno aumentare il consumo di cibi tradizionali del periodo. E all’inizio dell’anno compriamo più prodotti sani, perché vorremmo partire bene». Una ricerca Usa ha evidenziato che a gennaio-marzo le vendite di prodotti salutari sono più alte del 18,9% rispetto al periodo festivo e di circa il 30% rispetto a luglio-novembre. Però, restano stabili i cibi non salutari: quelli sani si aggiungono, non si sostituiscono.