Il Girasole di Simon Wiesenthal narra la storia vera di un incontro avvenuto nel 1943, quello tra l’autore, un ebreo rinchiuso in un campo di concentramento, e un soldato nazista sul letto di morte. Il soldato, Karl Seidl, chiese all’ebreo di essere perdonato per avere dato alle fiamme una casa all’interno della quale erano state rinchiuse 150 persone. I due uomini non si conoscevano. Wiesenthal se ne andò senza dare una risposta, ma in seguito domandò ad altri prigionieri che cosa avrebbe dovuto fare. L’obiettivo del libro è quello di scoprire se alcune colpe siano talmente atroci da non poter essere perdonate e invita il lettore a domandarsi: “Che cosa avrei fatto io?”. Al contempo solleva anche un’importante questione circa il valore del chiedere venia per ciò che si è compiuto, dal momento che l’incontro non si rivelò risolutivo né per il soldato né per il detenuto. La colpa di Seidl non fu cancellata e Wiesenthal continuò a tormentarsi a lungo, interrogandosi sulla validità della sua condotta morale di fronte a Dio, al popolo e all’uomo.
Seidl cercava l’assoluzione per un’offesa recente da parte di un rappresentante di coloro che aveva ingiuriato. La portata di quel gesto era evidente a entrambi, che pure non erano che figure minori in un quadro di persecuzione e di paura molto più grande e più atroce.
Più attinente al recente dibattito è però la tendenza a domandare e offrire manifestazioni di rimorso o ammissioni di colpa per eventi accaduti molto tempo fa. Alcuni ritengono che chiedere perdono sia un modo necessario per porre in evidenza gli aspetti spiacevoli del passato, sostenendo che l’incapacità di esprimere un giudizio morale e di avvalorarlo impedirebbe di porre alla base della cultura un codice di comportamento civile. Altri, invece, sostengono che arrendersi a questa esigenza sia una reazione istintiva al politicamente corretto, che finisce con il generare un circolo vizioso di colpe imprecise se non addirittura di tentativi disonesti di espiazione.
Costoro sono convinti che un gruppo (o una società) forte e dinamico dovrebbe progredire gestendo in modo autonomo le colpe del passato e forgiando al tempo stesso un futuro migliore.
Chiedere perdono sembra un atteggiamento particolarmente accettabile presso i governi tendenti a sinistra e da parte di quegli individui progressisti e proiettati su se stessi. Ciò è in linea con altre tendenze presenti all’interno della società occidentale come l’esibizione quasi religiosa delle emozioni: il cosiddetto “neoconfessionalismo”. In effetti, la discussione sull’esigenza di scusarsi per determinati eventi storici si è focalizzata principalmente sulle ragioni profonde che spingono una persona o un gruppo a domandare perdono e sulla sincerità di tale gesto. In alcuni casi le scuse appaiono come gesti vuoti, retorici, egoisti, di cui è facile farsi beffe, ma la cui validità è difficile da misurare. Fortunatamente, invece, valutarne l’utilità è molto più semplice.
Chiedere scusa serve ad assumersi la responsabilità di un’offesa, di una ferita o di un’ingiustizia specifica, a esprimere il proprio rammarico e a promettere una qualche forma di riparazione e/o di emendamento. Ma è necessario che ci sia anche qualcuno disposto ad accogliere queste scuse. Scusarsi ha un valore solo se permette di raggiungere una riconciliazione e tale scopo può essere ottenuto solo se donatore e destinatario adottano un atteggiamento di apertura reciproca e sono poi disposti a impegnarsi in un dialogo. Nel 1997, per esempio, Helmut Kohl e Václav Klaus, leader della Germania e della Repubblica Ceca, hanno congiuntamente riconosciuto le colpe commesse dai rispettivi Paesi tra il 1938 e il 1946. Il perdonare e l’essere perdonati erano connaturati in questo scambio. Le scuse proferite dal Giappone nel 1998 per le sofferenze causate in seguito all’invasione e all’occupazione del Sudest asiatico durante la Seconda guerra mondiale forse avevano un secondo fine, considerato il coinvolgimento del Giappone nella crescente economia della regione e, tuttavia, il fatto che siano state accettate suggerisce che il gesto è stato percepito come autentico.
Le scuse sono state convincenti e hanno contribuito ad alleggerire le relazioni tra il Giappone e una parte dell’Asia, ma sono state selettive. Il Giappone si è scusato per iscritto per l’aggressione militare alla Corea del Sud, perché il presidente Kim Dae Jung aveva adottato un atteggiamento conciliante e perché il Giappone vedeva in quel Paese un partner e non una minaccia o un rivale. Nel 1995 quando il primo ministro Tomiichi Murayama espresse scuse “ugualmente sentite”, queste si rivelarono meno efficaci, in particolare con la Cina, a causa della mancanza di fiducia tra i due Paesi e per il timore che una formale richiesta di scuse avrebbe potuto essere utilizzata per costringere il Giappone a offrire una ricompensa materiale e a sostenere la posizione della Cina nei confronti di Taiwan. Il peso dell’offesa è rimasto. Le scuse espresse da un capo di stato a un altro capo di stato tendono a essere accettate con più facilità in parte per via della parità di stato giuridico e della chiarezza di intenzioni delle due autorità, ma soprattutto per le possibilità di riconciliazione che vengono aperte dal perdono. Rifiutare una richiesta di scuse sembrerebbe suggerire che la condiscendenza, la discriminazione o lo sfruttamento sono un modo appropriato di relazionarsi con un individuo o un gruppo. Chiedere scusa per le offese arrecate nel passato è importante proprio perché quelle ferite e quelle ingiustizie non sono morte. Se è vero che la storia si occupa soprattutto dei morti, è altrettanto vero che l’assoluzione può venire solo da coloro che sono ancora vivi e che continuano a sentire il peso dell’ingiuria subita. È un processo di dare e avere. Scusarsi per le colpe della storia non è solo possibile, ma necessario perché le persone sono plasmate dalla loro storia. Essere vivi significa essere consapevoli della storia, nel bene e nel male. Ereditiamo degli obblighi dal passato e li trasmettiamo ai nostri successori insieme a tutti gli altri fardelli di cui ci carichiamo nel nostro percorso. Chiedere scusa e perdonare hanno valore non tanto perché permettono di chiudere i conti con il passato, ma perché permettono di stabilire un dialogo costruttivo e duraturo per il futuro.