Ogni tanto accade che, mentre badiamo alle nostre faccende quotidiane, nella nostra mente si introduca d’improvviso un pensiero bizzarro, quando non irritante o inquietante. Ma perché il nostro cervello si comporta così? È forse il segno che siamo cattive persone?
Vi è mai capitato di guidare in autostrada ascoltando l’autoradio e “sentire” di colpo il cervello che vi dice: “Ehi, che ne diresti di sterzare sulla corsia centrale?”. Oppure, mentre state tagliando il pane: “Che effetto farebbe usare questo coltello per pugnalare qualcuno?”. Sono esempi di pensieri intrusivi: idée che appaiono d’improvviso nella nostra mente, a volte del tutto di loro iniziativa, a volte come conseguenza di una situazione contingente, come guidare o tagliare il pane. In condizioni normali ci limitiamo a renderci conto che sono apparsi, li mettiamo da parte e continuiamo con le nostre faccende, ma per alcune persone, in determinati momenti della vita, allontanare queste strane idée può essere tutt’altro che facile. Con l’aiuto di alcuni esperti, vi spiegheremo di seguito che cosa sono i pensieri intrusivi, che cosa accade quando ne perdiamo il controllo e come possiamo imparare a gestirli…
Pensieri intrusivi, che cosa sono?
“In linea generale si definisce pensiero intrusivo qualunque idea che salta fuori senza preavviso nella nostra mente”, spiega Mark Freeston, psicologo clinico dell’Università di Newcastle, in Gran Bretagna, specializzato in disturbi ossessivo-compulsivi (DOC) e disturbi d’ansia.
Tecnicamente può trattarsi anche di pensieri positivi, ma di solito notiamo con più facilità quelli negativi. Un esempio tipico è il panico improvviso di aver lasciato il forno acceso con il rischio di mandare a fuoco la casa, un genere di pensiero che, di tanto in tanto, colpisce chiunque di noi. Tuttavia, normalmente non lo classifichiamo come “indesiderato”, perché alla fine è solo un pensiero e scompare in fretta come è apparso. Ma ci sono anche pensieri intrusivi assolutamente indesiderati, soprattutto nella mente di chi soffre di disturbi come i DOC, la sindrome da stress post-traumatico (PTSD) e l’ansia sociale. “Chi soffre, per esempio, di ansia sociale – spiega Freeston – può avere pensieri intrusivi come: ‘Che cosa vedono le altre persone quando mi guardano?’ o ‘Mi stanno tremando le mani?’”. Chi invece soffre di DOC può avere un terrore ossessivo di contaminarsi, e chi soffre di PTSD può avere ricordi improvvisi o flashback di eventi traumatici.
In psicologia, la caratteristica che fa classificare un pensiero come intrusivo anziché come una semplice preoccupazione o comunque un pensiero di altro tipo, è il fatto di essere in contrasto con quello che una persona ritiene reale o più genericamente con i suoi valori: la definizione scientifica è “pensieri egodistonici”. Una preoccupazione, per contro, è considerata un pensiero “egosintonico”, cioè meglio allineato con quello che uno specifico indivduo normalmente pensa: per esempio, se avete letto che il costo dell’energia e dei beni essenziali è in aumento e rischiate di trovarvi a dover spendere più di quanto guadagnate, ha perfettamente senso che vi possiate preoccupare di come farete a pagare le vostre bollette. Questa sarebbe appunto una normale preoccupazione, non un pensiero intrusivo.
I pensieri intrusivi sono una cosa normale?
Sì, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. Jack Rachman è stato il primo psicologo a dimostrare in maniera sperimentale che i pensieri intrusivi sono “normali”, con una ricerca condotta negli anni Settanta assieme al collega Padmal de Silva: su un campione di 124 soggetti psichiatricamente sani, è emerso che quasi l’80% di essi aveva di frequente pensieri classificabili come intrusivi. Il contenuto di questi pensieri è stato poi confrontato con quello dei pensieri ricorrenti di pazienti in cura per forme di ossessione e il risultato è stato sorprendente: il gruppo di psicologi cui è stata sottoposta la trascrizione di tali contenuti ha fatto molta difficoltà a distinguere tra i due gruppi. Qualche differenza è stata comunque riscontrata: nei pazienti clinici, i pensieri intrusivi erano più frequenti, più intensi e generalmente più difficili da ignorare.
Sebbene lo studio di Rachman abbia influenzato profondamente le ricerche sull’argomento per tutti i cinquant’anni che sono seguiti, il campione utilizzato era relativamente ridotto e formato solo da studenti britannici. Da allora sono stati fatti altri esperimenti analoghi, ma comunque limitati alle popolazioni europea e nordamericana, finché, nel 2014, un team internazionale di ricercatori ha deciso di puntare più in alto, realizzando uno studio su 777 persone provenienti da tredici Paesi diversi in tutti e cinque i continenti. A ciascun soggetto è stato chiesto di porre particolare attenzione nel distinguere i pensieri intrusivi dalle semplici preoccupazioni e dai pensieri di altro tipo: ne è risultato che il 94% dei soggetti aveva avuto almeno un autentico pensiero intrusivo negli ultimi tre mesi.
Oggi, Adam Radomsky, professore presso il Dipartimento di Psicologia della Concordia University di Montréal, in Canada, che ha guidato quello studio, si dice convinto che tutti gli esseri umani abbiano pensieri intrusivi: “Adesso sappiamo – dice – che le persone hanno una maggiore probabilità di notarli o di trovarsi a dover combattere contro di essi nei periodi di stress, ma mi sembra ormai indubitabile che averli è una caratteristica della mente umana e basta. Semplicemente, nella maggior parte dei casi non ce ne accorgiamo”.
Forse a provocarli sono processi importanti della nostra mente: se non avessimo mai pensieri casuali o non prendessimo mai in considerazione cose che non ci sembrano reali, come potremmo creare arte astratta o scrivere letteratura non realistica come il fantasy e la fantascienza? Il professor Freeston è d’accordo sull’idea che i pensieri intrusivi siano “parte della condizione umana”, ma aggiunge che avere di tanto in tanto pensieri casuali di fatto ci fa bene: “Una delle questioni di cui si è molto discusso – ha dichiarato – è che, se non avessimo pensieri casuali, non saremmo mai capaci di risolvere un problema”.
Nei casi di DOC si è anche esplorato il rapporto tra pensieri intrusivi e creatività come potenziale via per affrontare la condizione patologica: per esempio trascrivere i pensieri casuali può diventare un modo per tenerli a bada, anziché lasciarli liberi di bloccare ogni altro processo mentale.
Come faccio a capire se i miei pensieri intrusivi sono un problema?
La loro eventuale natura problematica dipende da come noi rispondiamo al loro insorgere. “A chiunque può capitare di avere idee bizzarre e magari profondamente malvage – dice Freeston – ma se l’individuo in questione fosse Stephen King, la sua reazione sarebbe esclamare: ‘Accidenti che grande idea!’e scriverci un romanzo. Se invece il soggetto del pensiero comincia a farsi domande come: ‘Che razza di persona ha idee del genere?’ o ‘Pensare queste cose significa forse che sono una persona peggiore di quel che credo di essere?’, ecco che il pensiero intrusivo può trasformarsi in un’ossessione”.
Le ossessioni in senso clinico sono pensieri intrusivi frequenti e indesiderati. Si possono sviluppare nei casi di DOC, in particolare quelli legati alla gravidanza o al periodo successivo al parto, ma sono caratteristici anche di altri disturbi psichici, dalla PTSD ai disordini alimentari, alla schizofrenia, come pure a problemi di natura fisica: pazienti che si sono ripresi dal cancro, per esempio, possono essere vittime dell’idea ossessiva che il loro cancro ritorni, e questo può influire sulla loro convalescenza.
In chi soffre di sindromi ossessive, i pensieri intrusivi tendono a presentarsi più spesso quanto più ci si sforza di liberarsene, anziché semplicemente accettarli e ignorarli. In alcuni casi, i pazienti, nel tentativo di gestire il pensiero, arrivano a mettere in atto azioni fisiche come tamburellare, contare o controllare ripetutamente se hanno compiuto una determinata operazione. Questi gesti vanno sotto il nome di compulsioni.
Tuttavia, se state vivendo un periodo di particolare stress e vi accorgete di combattere contro pensieri intrusivi più frequenti del normale, non significa automaticamente che stiate sviluppando un DOC: può voler dire soltanto che avete bisogno di maggiore consapevolezza e magari che vi servono sistemi per ridurre lo stress. Il professor Radomsky suggerisce che “non è necessario spingere via il pensiero con forza o evitarlo a tutti i costi, quando può bastare concentrarsi su ciò che ha effettiva importanza”, oltre che prendersi maggiormente cura di se stessi, il che a volte consiste già solo nel mangiare e dormire meglio.
Allo stesso tempo, anche pensieri intrusivi che appaiono di colpo dal nulla dovrebbero essere presi sul serio. Sintomi improvvisi di DOC nei bambini possono essere causati da infezioni virali o batteriche, come nel caso dei disturbi neuropsichiatrici infantili autoimmuni, associati a infezioni da streptococco (PANDAS), descritti per la prima volta negli anni Novanta dalla psichiatra infantile Susan Swedo.
Si tratta di casi rari e quindi ancora soggetti a diagnosi controverse: un racconto in merito viene da Alison Maclaine, il cui figlio dodicenne Jack ha sviluppato un PANDAS quattro anni fa e da allora quasi non riesce a lasciare la propria camera per il pensiero ossessivo di poter morire o fuggire di casa.
“I pensieri intrusivi sono stati il primo sintomo della sua malattia – dice Alison – e ci hanno causato moltissimo stress. Negli ultimi cinque mesi Jack non è riuscito nemmeno ad andare a scuola”. I pensieri intrusivi del ragazzo sono stati inizialmente indicati come sintomi di ansia e di un disturbo collocato nello spettro autistico. A un certo punto è stato curato con antibiotici e antinfiammatori, che hanno migliorato la situazione, ma Alison si domanda quanto potrebbe essere diversa la sua vita oggi se la diagnosi fosse stata corretta fin dal principio.
Altri sintomi che possono indicare la presenza di un PANDAS sono tic, iperattività, disturbi del sonno e attacchi di rabbia o di panico.
Quali sono le cause dei pensieri intrusivi?
Ricordiamo innanzitutto che i pensieri intrusivi sono un evento normale: se partiamo dal presupposto che si tratta semplicemente di idee casuali, allora a causarle è solo il costante ribollire di processi e ricordi che costituisce la nostra mente.
Secondo il professor Radomsky, a volte c’è qualcosa di specifico che li innesca: per esempio, ci può capitare di vedere per caso un estintore e provare automaticamente l’impulso di correre a casa a controllare che non sia andato tutto a fuoco. Altre volte, però, sono pensieri realmente casuali, frutto del nostro normale “rumore di fondo” mentale. Ma che cosa accade a coloro che hanno effettivi problemi con questi pensieri? Il loro cervello funziona in maniera diversa? Forse sì. Nel 2020, un team di ricercatori portoghesi ha esaminato un insieme di dati raccolti negli ultimi dieci anni su una serie di pazienti affetti da DOC e su come essi regolamentano il proprio pensiero, per esempio su che cosa succede quando viene chiesto loro di concentrarsi su immagini mentali sgradevoli o su fotografie reali. E così è emerso che le scansioni cerebrali dei pazienti con DOC denotano “risposte cerebrali alterate” in varie aree, rispetto alle risposte dei volontari sani.
Questi risultati possono gettare nuova luce sui processi descritti dagli psicologi nel momento in cui un individuo tenta di combattere i suoi pensieri. Il professor Radomsky, tuttavia, non si pronuncia a favore di spiegazioni neurobiologiche sulla lotta contro i pensieri intrusivi, affermando di non vederne l’utilità a livello terapeutico: “Non c’è molto che possiamo fare per influire direttamente sul nostro cervello – dice – ma abbiamo completo controllo su quel che decidiamo di pensare e quel che decidiamo di fare. Dunque, c’è molto più potenziale nello studiare quel che possono fare la mente e il comportamento che non nel prendere in considerazione la neurobiologia”.
Parlando con i propri pazienti, gli psicologi a volte riescono a identificare i motivi per cui alcuni individui sembrano più sensibili ai contenuti di determinati pensieri intrusivi. Per esempio, chi da piccolo ha assistito a un’aggressione violenta o a un incendio, da adulto, in alcuni momenti, può manifestare una sensibilità esagerata per certi pensieri e dunque farci più caso: diventare genitori, per esempio, può scatenare un’attenzione anomala verso tematiche legate alla sicurezza.
Ma, per quanto possiamo indicare come “cause” queste sensibilità individuali al posto delle differenze strutturali o chimiche dei cervelli, il professor Freeston ci ricorda che sviluppare un DOC è in parte una questione di pura sfortuna: “Potenzialmente c’è stata tutta una serie di occasioni nelle quali ciascuno di noi si è trovato più vulnerabile del normale, ha avuto un particolare pensiero e lo ha preso in considerazione in un determinato modo. In ultima analisi, nessuna di quelle cause iniziali ha veramente scatenato il DOC: si tratta di una combinazione dovuta all’aver considerato il pensiero in un certo modo, aver agito di conseguenza e aver poi rafforzato nel tempo quello schema di pensiero con la relativa risposta”.
E se i miei pensieri intrusivi fossero reali?
Abbiamo detto che i pensieri intrusivi tendono a essere in contraddizione con le credenze o i valori della persona che li pensa: dunque, una persona che soffre di disordini alimentari può avere il pensiero ossessivo di essere sovrappeso, persino se leggendo la bilancia è costretta ad ammettere che le prove fisiche dicono che non lo è.
Allo stesso modo, una persona affetta da DOC può avere pensieri ossessivi sulle cose orribili che potrebbero accadere se il suo corpo venisse contaminato da germi o se determinati oggetti non fossero disposti in un particolare ordine. E tali pensieri potrebbero manifestarsi anche se la persona in questione sa accettare a livello razionale che nessuna di quelle conseguenze funeste ha una concreta probabilità di manifestarsi.
Eppure, a volte anche nella vita reale, ci sono eventi che confondono la situazione, come l’insorgere di una pandemia: è ben noto che il diffondersi di malattie infettive può aumentare temporaneamente la frequenza di pensieri intrusivi sul tema della malattia, e dobbiamo considerare che nel mondo in cui abbiamo vissuto negli ultimi due anni la contaminazione dell’aria respirabile e delle superfici con cui entriamo in contatto tutti i giorni è diventata una preoccupazione lecita. Dunque, dobbiamo preoccuparci se ci capita di avere pensieri intrusivi sulle superfici contaminate da virus o sulla possibilità di prendere il COVID-19?
Meredith Coles, Direttrice della Clinica per l’Ansia Binghamton dell’Università di Binghamton a New York, prende in considerazione il problema: “In un certo senso – spiega – si potrebbe dire che avere un elevato livello di ansia avesse senso negli scorsi due anni e che dunque un maggior numero di pensieri intrusivi fosse normale”. La professoressa aggiunge che un po’ di ansia può avere anche un effetto salutare, se spinge le persone a vaccinarsi. “Dunque, sentirci così significa che soffriamo di DOC o vuol dire soltanto che siamo esseri umani che hanno dovuto affrontare una pandemia?”. Di sicuro, abbiamo vissuto tutti un periodo difficile, ma possiamo anche affermare che il COVID-19 abbia estremizzato la condizione di chi già soffriva di DOC? Uno studio italiano pubblicato nel 2021 sembra suggerire di sì. In questa ricerca, è stato sottoposto un questionario a 742 individui: gli intervistati che hanno raggiunto i punteggi più alti nelle domande sulla pulizia e la contaminazione che si usano di solito con chi soffre di DOC sono risultati gli stessi che tendevano a percepire il COVID-19 come particolarmente pericoloso. Si è rilevato anche un punteggio elevato nell’ansietà relativa alla salute (quella che un tempo veniva chiamata ipocondria) più strettamente correlato alla paura del COVID-19.
La professoressa Coles ritiene che, superato il picco pandemico, anche la frequenza dei pensieri intrusivi dovrebbe diminuire: a suo dire, siamo più resilienti di quanto talvolta crediamo. Questo peraltro non sottrae utilità a tutto quello che possiamo fare per ridurre le nostre ansie, come cercare sostegno da famigliari e amici e, ogni tanto, semplicemente spegnere i notiziari.
Come si possono fermare i pensieri intrusivi?
Lo ripetiamo ancora una volta: i pensieri intrusivi sono normali, dunque non possiamo eliminarli. Ma, se ci rendiamo conto che sono diventati un problema, esistono terapie certificate per affrontarli. Nel caso di DOC o di disturbo da dismorfismo corporeo si usano in genere la terapia cognitivocomportamentale (TCC) e la terapia di esposizione e prevenzione della risposta, e ci sono approcci separati e specifici di TCC per altri problemi come la PTSD. La TCC cerca di aiutare il paziente a cambiare il modo in cui pensa, incluse le sue reazioni ai pensieri intrusivi. La terapia di esposizione e prevenzione della risposta spinge il paziente a confrontarsi con l’oggetto delle sue paure: per esempio, chi ha compulsioni relative alla pulizia può dover accettare di toccare i rubinetti di un bagno pubblico senza mettere in atto il suo solito rituale di pulizia.
Non tutti ricavano gli stessi benefici da questo genere di terapia, ma la sua efficacia è suffragata da evidenze scientifiche innegabili. Esistono anche altri approcci più recenti, come la mindfullness e la terapia focalizzata sulla compassione (che incoraggia i pazienti a sviluppare una “voce interiore” di maggior supporto verso se stessi), ma a sostegno di queste tecniche non c’è ancora una grande mole di dati. “È già dimostrato che questi approcci sono comunque meglio di niente – sottolinea il professor Freeston – ma per il momento disponiamo di poco materiale per operare confronti diretti con gli approcci standard”.
Sviluppare nuove terapie comporta inoltre imparare di più sulle cause dei pensieri intrusivi. La professoressa Coles sta attualmente lavorando sul rapporto tra pensieri ossessivi e disturbi del sonno nei pazienti affetti da DOC: “Chi soffre di questo problema tende a dormire davvero poco. Per ora abbiamo solo dati iniziali, ma sembra già di intravedere una correlazione tra i disturbi del sonno e l’incapacità di togliersi determinati pensieri dalla testa”.
Il team del professor Radomsky è invece al lavoro su come aiutare i pazienti a modificare le certezze collegate ai pensieri intrusivi, come per esempio la convinzione di non avere buona memoria: correggere questa idea può aiutare chi mette in atto rituali di controllo ripetuto. Un altro punto su cui si focalizzano gli studi sono le convinzioni relative alla perdita di controllo: “I pazienti – spiega Radomsky – a volte credono che, se perdono il controllo dei loro pensieri, perderanno anche quello delle loro azioni. In chi soffre di DOC, questa convinzione è inevitabilmente falsa».
Da HAYLEY BENNETT
Hayley è scrittrice scientifica e vive a Bristol