Le masse di disperati che premono per entrare in Europa non sono così diverse dalle tribù seminomadi che dal I al V secolo si affollavano ai confini dell’impero romano. Volevano farne parte, ma contribuirono a distruggerlo. Riusciremo a trovare una buona soluzione adesso?
Nessuno, solo pochi anni fa, avrebbe mai potuto immaginare che l’Europa sarebbe stata inondata da masse di migranti in viaggio per terra e per mare. Torme di disperati che affrontano la morte su “ciabatte del mare” a rischio di affondare da un momento all’altro. Questo immenso traffico di esseri umani ci fa pensare che millenni di storia siano passati invano e che le civiltà stanziali possano tornare a essere travolte da una marea di poveri e diseredati in fuga dalla fame e dalla guerra. Sta di fatto che gli europei, in larga parte esonerati dalla guerra e non più tormentati dalla fame grazie a economie opulente, si sono trovati improvvisamente di fronte i cavalieri dell’apocalisse.
Migrava anche l’Homo sapiens
Eppure la migrazione è un fenomeno che si è verificato sul nostro pianeta fin dai tempi dell’Homo sapiens. Nei testi cuneiformi del terzo millennio avanti Cristo, si legge di vasti imperi che avevano vinto la fame e le carestie con l’agricoltura e l’allevamento e dovevano difendersi dalle invasioni e dai saccheggi di tribù seminomadi che si aggiravano lungo i loro confini. Questi popoli erano chiamati “barbari”e ritenuti non molto diversi dagli animali: spesso però riuscivano ad aver ragione delle società evolute e ricche perché la fame e la miseria davano loro energie e aggressività sufficienti.
Il caso dell’impero romano
L’impero romano è un esempio significativo. Già nell’epoca fra Cesare e Augusto, Orazio profetizzava il giorno in cui i cavalli dei barbari avrebbero calpestato le ceneri dell’Urbe. Per secoli l’impero difese una linea di confine lunga migliaia di chilometri, respingendo le invasioni con la forza. Poi consentì ai popoli che premevano fuori dai confini di entrare, dando loro terreni da coltivare, arruolandoli nel proprio esercito e assimilandoli nei costumi e nella lingua.
Alla fine del V secolo dopo Cristo, però, l’impero romano, stremato da guerre interminabili e da spese per la difesa enormi che avevano fatto crollare l’economia, e attraversato da un’ideologia pacifista (il cristianesimo) che considerava provvidenziali le invasioni, collassò. Si aprì un’epoca di guerre endemiche e continue, di pestilenze devastanti, di miseria e di fame. Ci vollero quasi mille anni perché si tornasse a qualcosa di vagamente simile alle condizioni di vita del I secolo d.C. Dunque, questo è un film che, mutatis mutandis, abbiamo già visto. Allora i barbari fuggivano dalla fame e dalla guerra e non volevano distruggere l’impero romano, bensì farne parte. Allora però la densità di popolazione era modesta, le terre disponibili vaste, le capacità di assorbimento a lungo termine importanti.
Oggi è tutto cambiato. Per ora si è trovato l’escamotage di appaltare il “lavoro sporco” agli stati geograficamente in condizione di fermare i flussi e di ammassare i migranti in campi simili a quelli di concentramento. Ma anche questo espediente già mostra i suoi limiti. I cambiamenti climatici in atto nell’Africa sub-sahariana stanno desertificando migliaia di chilometri quadrati e la distruzione delle foreste farà peggiorare le condizioni di vita di milioni di persone. La fame e il sottosviluppo indurranno la definitiva distruzione della natura e quando le ultime risorse naturali saranno consumate, aumenterà la pressione sui Paesi economicamente prosperi.
C’è una soluzione? C’è ancora tempo per escogitarla? Far quadrare il cerchio metterà a dura prova l’esperienza, l’intelligenza politica e l’inventiva economica dell’Occidente, ma non è detto che non sia possibile. Il risultato di un fallimento sarebbe una catastrofe non inferiore a quella del V secolo che, sommata all’imminente minaccia del cambiamento climatico, sarà molto più rapida del previsto.