Qual è il modo migliore di disfarsi dei propri nemici? Avvelenarli: l’uomo lo sa da diecimila anni e lo ha sempre fatto, senza spargimenti di sangue e addirittura senza correre il rischio di venire scoperto
Sin dalla preistoria gli uomini hanno imparato a usare le erbe sia per curarsi sia per uccidere. Secondo gli studiosi, i primi veleni sarebbero stati messi a punto oltre 10mila anni fa da cacciatori-raccoglitori desiderosi di rendere le punte di lance e frecce assai più letali. I più antichi documenti scritti in materia appartengono alla civiltà cinese: l’Erbario del leggendario imperatore Shên Nung (2838 a.C.) annovera 360 tra droghe e veleni; tuttavia, i più raffinati conoscitori e utilizzatori di veleni dell’antichità furono i Romani e proprio nell’antica Roma trionfò una delle “arti” più controverse e praticate dagli uomini: liquidare i propri nemici, restando nell’ombra.
In voga nella Roma imperiale
Sappiamo dalle cronache che, attorno al I secolo a.C., la nobildonna Sempronia, sorella dei Gracchi, venne sospettata di aver avvelenato il marito, e il senatore Catilina di aver avvelenato un figlio. Casi isolati? Niente affatto. Il veneficio, ossia l’omicidio mediante avvelenamento, doveva essere assai praticato in età repubblicana se, nell’81 a.C., il dittatore Silla fece approvare la Lex Cornelia de sicariis et veneficis, che considerava l’avvelenamento come la più efferata forma d’omicidio e sanciva il divieto di comprare, vendere o possedere veleni. È tuttavia in epoca imperiale, a partire dal I secolo d.C., che il veleno entra a pieno titolo sulla scena politica: imperatori, cortigiani e uomini di potere si liberano così dei propri nemici e non di rado dei propri familiari. L’imperatore Claudio, salito al trono dopo l’assassinio di Caligola, morì improvvisamente nel 54 d.C., dopo aver mangiato un piatto di funghi avvelenati. I sospetti caddero sulla quarta moglie, Agrippina minore, che cospirava per garantire il trono al proprio figlio Nerone, diciassettenne. Britannico, figlio di Claudio e della terza moglie, Valeria Messalina, si oppose alla successione e Nerone lo fece avvelenare. Ma con quali veleni si uccidevano gli antichi romani? In epoca imperiale si preparavano miscele a base di potenti tossici vegetali come aconito, colchico, elleboro bianco, assenzio, belladonna; non mancavano però i veleni minerali, come i solfuri di arsenico e mercurio, i sali di piombo e il litargirio (forma naturale dell’ossido di piombo), l’acido cianidrico, ricavato dai noccioli di alcuni frutti. Antidoti? Ne circolavano parecchi, ma con scarsa efficacia. Andromaco, medico personale di Nerone, ne elaborò uno detto theriaca a partire da oltre 70 ingredienti, tra i quali bitume, rucola, argilla, semi di finocchio, genziana, pepe nero, cannella, aglio, radice di liquirizia, mirra, zafferano, zenzero, rabarbaro officinale, origano, bacche di lauro, lavanda e vino: nulla di particolarmente efficace.
La chimica del Rinascimento
Nel 1533 l’italiana Caterina de’ Medici arrivò alla corte di Francia per sposare Enrico II. Era accompagnata da due “profumieri”, Renato Bianchini e Cosme Ruggieri, che erano invece maestri nell’arte di preparare filtri mortiferi. I veri re dei veleni furono però Papa Alessandro VI, ovvero Rodrigo Borgia (1431-1503), e suo figlio Cesare, detto “Il Valentino”. Il loro veleno, chiamato il “vin dei Borgia”, era la cantarella, una polvere bianca a base d’urina e arsenico: difficile da individuare, uccideva in meno di 24 ore. Altro veleno fu quello del filosofo napoletano Giambattista Della Porta (1535-1615) a base di calce viva, vetro filato, aconito, arsenico giallo, mandorle amare e miele. Celebri in tutta Europa furono anche la “camicia all’italiana”, ovvero l’uso di impregnare di arsenico una camicia che avvelenava per via transdermica, e la “scatola” del principe romano Savelli. Quest’ultimo regalava ai nemici un cofanetto prezioso, chiuso con una chiave difettosa: chi tentava di girarla nella serratura si graffiava e attraverso i graffi assorbiva il veleno che vi era stato spalmato sopra.
Novecento, secolo del cianuro
Dalla fine del Settecento, grazie allo sviluppo di chimica, anatomo-patologia e tossicologia, diventò più facile individuare le morti per avvelenamento e quindi più rischioso avvelenare qualcuno. Eppure, l’uso dei veleni non scomparve: il Novecento fu il secolo del cianuro. Erano a base di questa sostanza sia lo Zyklon B, usato dai nazisti nelle camere a gas dei campi di sterminio, sia la capsula di veleno con cui si uccisero molti gerarchi o generali del Terzo Reich, come Hermann Göring, Heinrich Himmler ed Erwin Rommel. Joseph Goebbels e la moglie Magda uccisero i propri figli (sei bambini) infilando loro in bocca una fiala di cianuro; Adolf Hitler, prima di spararsi, uccise con il cianuro il proprio pastore tedesco e fornì il veleno a sua moglie, Eva Braun. In Italia, nel secondo Dopoguerra, due casi di avvelenamento scossero l’opinione pubblica: il 9 febbraio 1954, nel carcere di Palermo, morì Gaspare Pisciotta, avvelenato da un caffè alla stricnina: il luogotenente del bandito siciliano Salvatore Giuliano voleva raccontare ai giudici la verità sui rapporti mafiapolitica e fu fermato anzitempo. Il 22 marzo 1986, nel carcere di Voghera, morì invece Michele Sindona con un caffè al cianuro. Qualcuno temeva che rivelasse agli inquirenti i rapporti intercorsi tra politici italiani, Cosa Nostra e la loggia massonica P2. I mandanti e gli esecutori di questi due omicidi restano ancora oggi misteriosi. L’uso disinvolto dei veleni ha caratterizzato anche il KGB (i servizi segreti dell’ex Unione Sovietica) e la CIA (l’agenzia di intelligence Usa) negli anni della Guerra Fredda. Più recentemente si sospetta che sia morto per avvelenamento Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), spentosi nel 2004 in un ospedale parigino. Con cibo contaminato da polonio 210, veleno radioattivo, è stato infine ucciso a Londra il 23 novembre 2006 l’ex agente dei servizi segreti russi e dissidente Alexander Litvinenko.
I VELENI PIÙ POTENTI SONO NATURALI
Sapete quali sono i veleni più potenti al mondo? Dal momento che la nostra è un’era tecnologica, molti potrebbero pensare a qualche sofisticata sostanza chimica di sintesi. E invece no: il record di pericolosità spetta a due veleni provenienti dalla natura.
LA TOSSINA BOTULINICA, prodotta dal batterio Clostridium botulinum, è la sostanza più velenosa che si conosca: secondo lo studio scientifico più quotato in materia (Stephen S. Arnon et al., 2001), 1 g disperso in aria e inalato può uccidere più di 1 milione di persone. Con pochi chili si potrebbero in teoria sterminare tutti gli esseri umani sulla Terra. Per questo motivo, il Center for Disease Control degli Usa l’ha inserita tra le 6 peggiori minacce bio-terroristiche attuali. Nel 1961, la CIA tentò di assassinare il leader cubano Fidel Castro con sigari trattati con tossina botulinica. Per fortuna, il suo uso come arma chimica è rimasto limitato.
LA RICINA è 6mila volte più letale del cianuro e non lascia scampo perché fino a questo momento non se ne conosce alcun antidoto. Ricavata dai semi della pianta di ricino (Ricinus communis), è altamente tossica: 500 microgrammi (un microgrammo è la milionesima parte di 1 grammo) dispersi in aria bastano a uccidere un uomo. Ben nota ai servizi segreti dell’Est ai tempi della Guerra Fredda, è stata usata nella guerra Iran-Iraq (1980-88), sperimentata dai Talebani afgani e dai terroristi di Al Qa’ida; oggi è parte dell’arsenale chimico di siriani, curdi e fondamentalisti islamici.
AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
ARSENICO Si trova in natura sotto forma di solfuro, contenuto nel cristallo rosso di nome realgar e in un cristallo dorato detto orpimento. Si presenta anche come polvere bianca, inodore e insapore, che può essere aggiunta a cibi e bevande senza destare sospetti; a certe dosi, provoca convulsioni e morte, mentre in quantità più piccole ma ripetute determina un progressivo stato di debilitazione e infine la morte. Nel 1836 il chimico inglese James Marsh ideò un test per individuare nel corpo le tracce del veleno.
CIANURO L’acido cianidrico, detto anche acido prussico, fu isolato nel 1704 e appare come un liquido incolore dal tipico odore di mandorle amare; il cianuro è il sale che ne deriva. Entrambi sono altamente tossici: bloccano l’azione dell’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno nel sangue, e uccidono in pochi minuti per collasso cardiorespiratorio. Sono letali sia ingeriti (sotto forma di cianuro) sia inalati (come acido cianidrico gassoso).
Quando le piante uccidono
Siamo abituati a pensare che tutte le piante siano benefiche o abbiano proprietà curative, ma non è vero: alcune uccidono e lo fanno con sorprendente efficacia. Ecco i più potenti veleni vegetali, usati sin dall’antichità:
CICUTA (Conium maculatum)
Questa pianta erbacea, diffusa anche in Italia, è velenosa per la presenza di 5 alcaloidi tossici (coniina, conidrina, pseudoconidrina, metilconicina, coniceina): pochi grammi di frutti verdi possono uccidere un uomo provocandogli una paralisi respiratoria, mentre mezzo chilo di foglie uccide un bue. Nell’antichità era assai usata: il filosofo greco Socrate, condannato a morte, fu costretto a bere una pozione a base di cicuta nel 399 a.C. e con essa scelse di suicidarsi anche il grande condottiero cartaginese Annibale nel 183 a.C.
ACONITO (Aconitum napellus)
Ogni parte della pianta, la più velenosa delle erbe alpine che crescono in Italia, contiene aconitina, un potente alcaloide che agisce come una neurotossina: 6 mg bastano a uccidere un uomo adulto. Alcuni popoli barbari come Galli e Germani vi intingevano le punte di frecce e lance prima della battaglia.
STRICNINA (Strychnos nux-vomica)
La noce vomica è un albero che cresce in India e nel Sudest asiatico; i semi dei suoi frutti contengono due alcaloidi tossici: la stricnina e la brucina. Gli effetti variano in relazione alle dosi somministrate: 15-30 mg di stricnina bastano a uccidere un uomo adulto.
MANDRAGORA (Mandragora officinarum)
Sin dai tempi antichi, gli uomini hanno considerato questa Solanacea una specie di pianta magica: gli Assiri la usavano come analgesico e sonnifero, gli antichi Greci e i Romani come afrodisiaco e ansiolitico. Considerata tradizionalmente una creatura a metà tra il regno vegetale e quello animale, fu al centro di numerose superstizioni: si credeva che nascesse dallo sperma degli impiccati e che il suo “pianto” fosse in grado di uccidere un uomo. In realtà le sue radici contengono alcaloidi tossici, tra i quali mandragorina (simile all’atropina) e scopolamina; in dosi massicce, la pianta provoca tachicardia, allucinazioni, convulsioni e morte.
BELLADONNA (Atropa belladonna)
Questa Solanacea è stata chiamata “belladonna” perché nel Rinascimento l’estratto acquoso della pianta era largamente impiegato dalle donne come collirio cosmetico: l’atropina contenuta nelle foglie e nelle radici dilatava le pupille, rendendo gli occhi più lucenti. A dosi elevate, però, la pianta è altamente tossica: 3-4 bacche rosse uccidono un adulto.