La giornata di ognuno di noi è contrassegnata da comportamenti “ricorrenti”, che ci aiutano a vivere. Ecco quali meccanismi li attivano
Siamo abitudinari: svolgiamo sempre nello stesso modo circa il 40% delle nostre attività quotidiane. Basta pensare a gesti meccanici come lavarsi i denti, allacciare la cintura di sicurezza dell’auto o accendere la luce entrando in una stanza. Ma anche a comportamenti più articolati che seguono uno specifico copione: per esempio, la sequenza di azioni fatte ogni mattina prima di uscire, o quando si rincasa. Poi ci sono le consuetudini riguardo alla gestione del proprio lavoro, della vita famigliare, del tempo libero, fino a che cosa si mangia a colazione. La nostra vita quotidiana include centinaia di abitudini di cui, in parte, non siamo consapevoli fino a quando, come è avvenuto con la pandemia, non abbiamo dovuto necessariamente rinunciarvi. A cosa servono queste azioni ripetute? Eche cosa accade se siamo costretti a cambiarle?
NUOVI CIRCUITI
Il cervello tende sempre a convertire una sequenza di azioni in una routine se ciò porta a un “premio”. Il processo è noto come “chunking” e si compone di tre fasi: una situazione da cui nasce un desiderio (per esempio, sentire profumo di brioches sulla strada del lavoro); un’azione (comprare una brioche); infine, la ricompensa, che è il vantaggio che si trae dall’azione (il piacere della brioche) e attraverso cui il cervello stabilisce se vale la pena di ricordare e ripetere questo schema (mangiare una brioche prima del lavoro). Il ciclo situazione, azione e ricompensa diventa sempre più automatico fino a consolidare un’abitudine. Perché un’abitudine prenda piede occorre però che entrino in gioco i gangli della base, strutture cerebrali collocate inprofondità, sotto la corteccia, che codificano le azioni che compongono quella consuetudine (vedi riquadro nell’ultima pagina). Una volta che lo schema di comportamento è impresso nel cervello, diventa estremamente difficile abbandonarlo.
Per questo, «Le abitudini ci aiutano a sopravvivere», come afferma Justin O’Hare, neurobiologo della Duke University (Usa), che ha studiato proprio i meccanismi cerebrali che consentono il formarsi delle abitudini. «Fermarsi a pensare a ogni piccola cosa che si fa nella vita quotidiana sarebbe paralizzante». Entrando invece in modalità “abitudine”, il cervello risparmia fatica e diviene più efficiente liberando spazio nella mente per pensare ad altro, un po’ come chiudere un programma nel pc o nello smartphone libera RAM per far girare più velocemente altre applicazioni.
IL PROBLEMA AUTOMATISMI
C’è però un risvolto negativo: capita a tutti di trovarsi a parcheggiare l’auto sotto casa senza essersi resi conto del tragitto (“Come ho fatto ad arrivare qui?”) oppure di imboccare la strada che porta al lavoro anche nei fine settimana. «L’abitudine prende il sopravvento perché la corteccia orbitofrontale si quieta», ha detto Christina Gremel, neuroscienziata dell’Università della California, a San Diego. Si tratta dell’area del cervello che elabora le decisioni e regola il comportamento, valutandone le conseguenze. La ricercatrice ha riscontrato che a frenare la sua attività, consentendo così l’attuazione dell’abitudine, è il rilascio di endocannabinoidi, sostanze chimiche prodotte dall’organismo che modulano l’eccitabilità dei neuroni. Il risultato è che il cervello inserisce il pilota automatico, smettendo di monitorare ciò che si fa. Così a volte finiamo per muoverci come zombie, affidandoci impropriamente a gesti automatici: a molti sarà successo dimettere il sale nel caffè o di compiere altre azioni altrettanto insensate.
«Abbiamo bisogno di un equilibrio tra abitudini e azioni mirate. Dobbiamo eseguire azioni di routine in modo rapido ed efficiente e le abitudini servono a questo», ha affermato Gremel. «Tuttavia, incontriamo anche circostanze mutevoli e dobbiamo mantenere la capacità di “rompere le abitudini” per compiere azioni mirate basate su informazioni aggiornate». Se ciò non accade le conseguenze possono perfino essere tragiche: basta pensare a quei genitori a cui è successo di lasciare per ore i figli sul sedile posteriore dell’auto: il programmaautomatico “andare al lavoro” ha guidato le loro menti e le loro azioni, inducendoli a dimenticare di avere i bambini a bordo, per esempio per portarli all’asilo.
QUESTIONE DI TEMPO
Uno studio dello University College di Londra ha provato che occorrono circa 2 mesi per formare un’abitudine. Un campione di volontari ha scelto un nuovo comportamento (come “bere una bottiglia d’acqua a pranzo” o “correre 15 minuti prima di cena”) e riferito ogni giorno se era stato eseguito e quanto fosse diventato automatico: in media, le nuove abitudini si sono consolidate in 66 giorni. E non è un meccanismo “tutto o niente”: i comportamenti sono divenuti abitudinari anche se occasionalmente non erano stati attuati.
Al di là di questa ricerca, comunque, si sa che le abitudini con ricompense immediate (guardare una serie tv, per esempio) sono più facili da acquisire di quelle che portano vantaggi a lungo termine (come fare sport). Ma tutte possono diventare fini a se stesse, indipendenti dal risultato: un team di scienziati della Duke University ha addestrato alcuni topi a premere una leva per ottenere un bocconcino, e quelli che ne avevano fatto un’abitudine continuarono ostinatamente a premerla anche se non ne ricavavano più nulla. Sono solo topi? Anche gli esseri umani possono essere altrettanto rigidi.
Un’altra curiosa ricerca ha infatti provato che i consumatori abituali di popcorn al cinema continuano a sgranocchiarli avidamente davanti a un film anche quando sono stantii. Lo hanno verificato con un esperimento gli studiosi della University of Southern California: gli abitudinari hanno mangiato popcorn “vecchi” quanto quelli freschi, anche se non erano affamati. Ecco perché può capitare che, avendo l’abitudine di consumare uno snack a una certa ora del giorno o se ci si trova in un determinato stato d’animo, sia difficile smettere, anche se col tempo quello spuntino ha smesso di essere gratificante (un ostacolo non da poco per chi vuol mettersi a dieta!).
BREAK DOWN
Così, spesso, i cambiamenti avvengono solo quando qualcosa rompe forzatamente i nostri schemi. Ne è un esempio ciò che è accaduto con lo sciopero dei lavoratori della metropolitana londinese nel 2014. Per due giorni la protesta ha chiuso circa i due terzi delle stazioni della città costringendo molte persone a ripensare i propri percorsi. Uno studio delle Università di Cambridge e Oxford che si è svolto qualche settimana dopo ha stabilito che da quel momento il 5% dei pendolari ha cambiato stabilmente tragitto quotidiano: la rottura improvvisa della routine li ha portati a scoprirne uno migliore prima mai considerato.
Con la pandemia è successo qualcosa di simile: siamo stati tutti soggetti a un enorme esperimento. Dato che le abitudini si stampano nei circuiti neurali, i nostri cervelli hanno dovuto cambiare un po’ le connessioni, per esempio per abbandonare automatismi come toccarsi il viso o i capelli (quantomeno senza prima aver ben igienizzato le mani) oppure abitudini come appoggiare la mano sulla spalla di un amico o dare la mano a un conoscente: il cervello dà il via all’impulso ad allungare il braccio e poi “stop!”, lo frena. Una costante riprogrammazione di azioni, pressoché in ogni ambito di vita. «Se una routine viene interrotta, allora dobbiamo pensare molto di più a cosa fare, il che mette sotto pressione la parte decisionale del cervello, il lobo frontale, che ha un’energia limitata e può affaticarsi», afferma Faye Begeti, neuroscienziata dell’Università di Cambridge. In più, le abitudini nel bene e nel male ci definiscono e abbandonarle drasticamente significa rivedere ciò che siamo. Il risultato è stato un aumento esponenziale di ansia e stress nella popolazione, legato sì alla paura per la salute e al senso di incertezza ma anche allo stravolgimento della routine.
MENTE RICALIBRATA
Abbiamo quindi acquisito nuove abitudini per la nuova realtà, come prendere la mascherina prima di uscire o lavorare da casa.
«Siamo molto bravi a imparare cose nuove e a dimenticare ciò che non è una priorità», ha fatto notare in proposito Tina Franklin, neuroscienziata del Georgia Institute of Technology. Di conseguenza le riaperture hanno portato nuovo disorientamento nel riprendere gli schemi di comportamento accantonati. Uno stress che altera le aree cerebrali che controllano funzioni come la memoria, l’attenzione e la pianificazione del comportamento. Così molti hanno provato una sensazione di appannamento mentale definita “cervello pandemico”: piccoli blackout nel ricordarsi le cose, insoliti tentennamenti per decisioni banali, il non percepirsi intellettivamente reattivi e pienamente in contatto con la realtà. Per fortuna, ancora una volta, i nostri cervelli “si abituano” e quindi sono tornati (o torneranno) efficienti come prima. A qualcuno, naturalmente, occorre un po’ più di tempo per ricalibrarsi: non tutti hanno vissuto la pandemia allo stesso modo e le reazioni sono diverse anche per quanto riguarda il ritorno ai contatti sociali (vedi riquadro nella pagina precedente). Ma per la maggior parte di noi oggi la vita è un mix tra vecchie e nuove abitudini: molti continueranno a cucinare più spesso, ad allenarsi anche in casa, a servirsi dei riscoperti piccoli negozi sotto casa, a rinunciare al superfluo, a divertirsi in nuovi modi appresi quando si era lontani dalla solita giostra di attività. Di certo, il reset del nostro stile di vita ci ha dato l’occasione di ripensare a noi stessi e di scegliere, per quanto possibile, cosa cambiare e cosa no di ciò che eravamo.