Un caso da manuale: prima i coloni europei si sono allargati a macchia d’olio in Nord America e poi, facendo ricorso ad antropologia e archeologia, hanno gettato le basi dell’autogiustificazione per il genocidio dei nativi americani. Che, secondo alcune teorie molto utili, non erano affatto «nativi» ma a loro volta immigrati dalla Siberia. Poi invece si è scoperto che le cose probabilmente erano più complesse ma ormai era tardi: gli indiani erano stati decimati e rinchiusi nelle riserve. Lo raccontano gli autori del saggio (Oaks editore) dal titolo «Al dio degli inglesi non credere mai». Ne anticipiamo un brano
Secondo gli archeologi, in una data compresa tra 10 mila (le stime più conservatrici) e 40 mila anni fa (le stime più coraggiose) piccoli gruppi di popoli dell’Asia migrarono in Alaska attraverso lo Stretto di Bering. Approfittarono di un ponte di terra che univa in quell’epoca il continente asiatico a quello americano a seguito delle glaciazioni che avevano abbassato il livello dei mari. La provvidenziale striscia così emersa dinanzi alle coste della Kamchatka e della Siberia avrebbe permesso a quei nomadi asiatici di viaggiare lungo l’America settentrionale per giungere sino all’America centrale e meridionale. Sino agli anni ’50, i testi scolastici statunitensi collocavano la data del primo arrivo tra i cinquemila e i 10 mila anni fa. Oggi, come detto, si è giunti a datazioni più antiche ma nel 1968, in una località del Nuovo Mexico, il famoso antropologo Louis S. B. Leakey riportò alla luce utensili di pietra che lo scienziato fece risalire a un periodo tra i 40 mila e i 100 mila anni fa. Successivamente Leakey intraprese esplorazioni anche a Calico Hills, in California, dove trovò altre tracce che gli fecero ipotizzare che i cosiddetti “pellerossa” potessero avere cominciato a vivere sul continente nordamericano da 200 mila anni. Occorre dire che nonostante l’autorevole parere, i colleghi di Leakey si affrettarono a smentirlo affermando che gli strumenti di pietra che aveva prodotto a sostegno della sua tesi altro non erano che scherzi della natura e non utensili da lavoro.
Nell’inverno del 1798 Piccola Tortora, uno dei grandi capi indiani della regione intorno all’attuale Miami, era a Filadelfia per discutere il trattato di Greenville con alcuni membri del Congresso. In quella città ebbe occasione di incontrare il conte Volney, un francese che mostrava molto interesse per il mondo pellerossa. Una notte il nobile d’oltreoceano mostrò a Piccola Tortora una carta dell’America e dell’Asia. Volney, indicando lo Stretto di Bering, spiegò al capo indiano come i progenitori di Piccola Tortora e del suo popolo si erano mossi dall’Asia e sostenne le sue affermazioni sottolineando come i Tartari della Persia, alcuni dei quali si trovavano a Filadelfia in quei giorni, apparivano molto simili fisicamente agli uomini delle tribù pellerossa. Piccola Tortora afferrò il senso e il significato delle parole del conte francese. Si limitò solo a rispondere: «Non è possibile che siano loro, quei Tartari che tanto ci somigliano, a essere partiti dall’America…? Forse noi siamo nati e siamo sempre rimasti su questa terra. C’è qualche prova del contrario?». Quasi 200 anni dopo gli scienziati non sono in grado di dare al quesito di Piccola Tortora una risposta definitiva. Anzi gli studi di Leakey suggeriscono che l’ipotesi di quel vecchio capo indiano potrebbe essere più attendibile di quanto non si pensi. Quella dello Stretto di Bering continua, infatti, a essere solo una teoria. Non un fatto accertato. […]
Gli uomini nuovi degli Stati Uniti avevano tutto l’interesse a credere e a far credere che l’emisfero occidentale, in particolare il continente nordamericano, fosse un territorio ricchissimo, fertile, non sfruttato, in attesa di un padrone con il senso degli affari. Da qui l’ostinata volontà di registrare i popoli pellerossa negli archivi non come abitanti originali e originari ma come un pugno di immigrati relativamente recenti che avevano disfatto i bagagli solo qualche secolo prima che Colombo, sbagliando i conti, atterrasse da quelle parti. In poche parole, se le cose stavano così, il diritto di proprietà sull’America degli indiani avrebbe potuto essere spazzato via senza troppi problemi per mero diritto di conquista. Prima della dottrina del Manifest Destiny [slogan coniato nel 1845 dal giornalista John L. O’Sullivan e che riassume la convinzione che gli Stati Uniti d’America abbiamo la missione di espandersi per portare ovunque libertà e democrazia, NdR] e dell’epico e appassionato grido di Horace Greeley, «Go West, young man, go West…», gli statunitensi e il mondo vennero eruditi sull’impossibilità, politica prima che scientifica, di un precoce popolamento del continente da parte delle tribù pellerossa. Una volta lanciata la parola d’ordine, generazioni di studiosi si misero alacremente all’opera per diffondere la teoria dei latecomer (letteralmente «quelli giunti da poco tempo») e quella della migrazione in senso ovest-est attraverso lo Stretto di Bering. I ritrovamenti archeologici di Clovis e Folsom, di cui tra poco tratteremo, misero in qualche imbarazzo la ricerca addottorata ma tutto venne risolto tirando un pochino indietro le lancette degli orologi migratori e il calendario del presunto esodo siberiano.
Senza sconvolgere più di tanto il quadro di fondo, congruente alle mire di un paese costretto da un «destino manifesto» a distendersi da un oceano all’altro, versione riveduta e corretta in chiave yankee – e pertanto accettata con entusiasmo e senza difficoltà da tutto il mondo – di quel Lebensraum [spazio vitale, ndr] pangermanista che avrebbe scatenato anglo-sassoni e latini furori, per alcuni versi assai problematici. Quella della migrazione interglaciale dall’Asia è un’ipotesi, una teoria, un pregiudizio, tenacemente radicatosi nel profondo dell’immaginario collettivo a stelle e strisce. A questo proposito Deloria racconta un interessante aneddoto, piuttosto illuminante per comprendere l’esatta percezione della teoria dell’immigrazione asiatica attraverso lo Stretto di Bering da parte degli statunitensi non indiani. All’indomani dell’occupazione da parte di un gruppo di militanti pellerossa di Wounded Knee nel 1973 [Luogo di un celebre eccidio compiuto dall’esercito USA nel 1890 ai danni di una tribù di lakotasioux: le vittime furono circa 300, NdR], una serie di processi videro alla sbarra un certo numero di imputati di origine pellerossa che incentrarono la difesa sull’attuale validità del Trattato di Laramie del 1868 con il quale il governo degli Stati Uniti aveva assegnato la zona delle Black Hills – sul cui territorio si trova Wounded Knee – alle tribù lakota. Alla fine tutti i processi vennero accorpati in uno solo tenutosi a Lincoln, Nebraska. Per quanto incredibile possa apparire quanto stiamo per dire, la materia del contendere verteva sul documentabile stato di civiltà raggiunto dalle popolazioni indiane al tempo della firma del trattato. La difesa giocò le sue carte nel tentativo di dimostrare in un’aula di tribunale degli Stati Uniti che i lakota possedevano una cultura chiaramente definita, una sfera spirituale ben precisa e un’organizzazione sociale ed economica in grado di garantire un corretto sviluppo della comunità, insomma tutto l’insieme di attributi che conferisce sovranità e diritti inalienabili a una nazione.
Che negli anni Settanta del XX secolo un tribunale statunitense dovesse ancora accertare tali evidenze e senza sollevare la minima reazione d’indignazione nella società americana la dice lunga sul razzismo sottopelle che corrodeva, e forse ancora corrode, la fibra intima
della più grande democrazia del mondo. Comunque sia, dall’accertamento della «civilizzazione» delle tribù indiane in termini legali si arrivava al cuore della disputa. Sapere cioè se i lakota nello stipulare con il governo di Washington una serie di trattati di pace erano entrati di diritto in una relazione di protettorato sul modello di quella che regola le relazioni tra il Principato di Monaco, il Liechtenstein e i grandi Stati europei di cui i primi due costituiscono un’enclave. Una volta raggiunta tale dimostrazione de iure si sarebbero minate alla base le radici dell’opposta versione, quella che vede i popoli dell’uomo rosso semplicemente come nazioni «sotto custodia» (ward) dell’amministrazione statunitense. In pratica, soggetti in affidamento tutelare, a vario titolo dipendenti dal buon cuore e dal ben volere dei custodi. Nel corso del dibattimento ampio spazio venne dedicato alla teoria dell’immigrazione dalla Siberia attraverso lo Stretto di Bering in quanto, si sosteneva tra le righe, dei latecomer non sarebbero stati in grado di elaborare una civiltà degna di questo nome. Fu dopo un’udienza incentrata su quell’ipotesi che una donna dall’aria saputa si avvicinò a Deloria e, con fare complice, gli disse: «Vede, mio caro, siamo tutti immigrati giunti da qualche parte…», per poi allontanarsi verso l’uscita. Il nostro rimase tanto sorpreso da quella affermazione da non avere la prontezza di spirito di replicare a tono. Perché, comunque, essere arrivati 100 mila anni fa disegna una gran bella differenza rispetto al fatto di essere sbarcati dalla stiva di una nave maleodorante qualche manciata di generazioni prima. Il racconto di Deloria è importante per capire quanta posta è in gioco sul tavolo da poker di quel benedetto ponte di terra glaciale tra Siberia e Alaska. Non si tratta solo di teorie scientifiche più o meno bizzarre. In ballo ci sono questioni politiche assai più pregnanti e decisive per la società contemporanea e i dogmi dell’antropologia servono soprattutto a sostenere e a mantenere un’ortodossia politically correct nel senso più stretto del termine, in grado cioè di sgravare le problematiche coscienze di una nazione che ha costruito il suo successo e la sua potenza sullo sterminio delle popolazioni indigene e su una spietata occupazione militare del territorio. […] Per decenni gli esperti più accreditati rifiutarono anche le evidenze dei reperti rinvenuti a Folsom, Clovis e in altre località delle High Plains, mantenendosi fedeli all’idea che durante il periodo glaciale l’uomo non era presente sul territorio americano. […]
Sino a quell’epoca, l’ipotesi dell’arrivo recentissimo dell’uomo rosso in America aveva assunto i connotati di un laico articolo di fede e la sola idea di metterla in discussione equivaleva a un suicidio professionale. Una tendenza confermata anche in epoche più vicine a quelle odierne, come testimonia il caso del dottor Thomas Lee, antropologo canadese alle dipendenze del National Museum of Canada. Tra il 1951 e il 1955, nel corso di una serie di scavi organizzati nella località di Sheguiandah, sull’isola di Manitoulin nell’Ontario settentrionale, Lee si trovò nell’imbarazzante situazione di riportare alla luce reperti di un’antichissima cultura che secondo le sue stime risalivano a un periodo compreso tra i 30 mila e i 100 mila anni fa. Un’ipotesi di lavoro che sconvolgeva drammaticamente tutte le credenze precedenti a proposito dell’insediamento umano nel continente e dei periodi delle glaciazioni. Un eminente antropologo giunto sul sito espresse un orrore profondo per quanto vide squadernato dinanzi ai suoi occhi e consigliò premurosamente a Lee di ricoprire la zona dello scavo in tutta fretta per affidare la sua reputazione scientifica a lavori più corretti dal punto di vista dell’ortodossia comunemente accettata e condivisa. Il dottor Lee non se ne diede per inteso e decise di fare di testa sua, sfidando l’establishment e le datazioni invalse nella consuetudine. Mal gliene incolse. Il sistema scientifico scese sul sentiero di guerra, contro di lui e le sue idee. Lee perse il posto di lavoro al museo e cominciò a capire cosa volesse dire sfidare il clima e la moda delle attitudini archeologiche e antropologiche. Come scrisse anni dopo: «Venni cacciato dal mio ruolo nella funzione pubblica canadese a causa dell’agitazione di alcuni cittadini americani di entrambe le parti del confine e ostracizzato per otto lunghi anni. Ero ormai sulla lista nera e costretto alla disoccupazione». Un clima da «caccia alle streghe» non insolito su un terreno dove il discostarsi dalla cappa plumbea del conformismo intellettuale può causare licenziamenti in tronco, boicottaggi culturali, congiure del silenzio e accuse di instabilità mentale.
di G. Peroncini e M. Colombo