Volete attirare l’attenzione degli altri? Tutto sta nell’effetto sorpresa: in altre parole, nel fare (o dire) il contrario di quello che ci si aspetta da voi
Se state continuando a scorrere le righe, significa che con una semplice frase siamo riusciti a catturare la vostra attenzione, applicando uno dei trucchetti che suggerisce Ben Parr, autore di Captivology: the science of capturing people’s attention. La regola è disruption, cioè cercare di creare disordine, caos. Qualche anno fa, l’azienda di articoli sportivi Patagonia aveva affisso sui muri un cartellone con una giacca blu e lo slogan:
“don’t buy this jacket”, non comprate questa giacca. Risultato: vendite più che duplicate. L’azienda aveva capito che lanciare un messaggio contrario alle aspettative, attirava l’attenzione dei passanti. La regola, secondo Ben Parr, è di disilludere, infrangere le aspettative e far domandare alla gente: che cosa sta succedendo? Infatti, se vedete un gruppo di clown in un ospedale pediatrico vi sembrerà normale, ma se gli stessi pagliacci li ritrovaste al bar, vi chiedereste: che cosa succede? Perché non è “normale”, nel senso che non è come ve lo aspettate.
Solo due copie rimaste
Se vi dicessimo così, comprereste subito la rivista? Secondo l’esperto di persuasione Robert Cialdini, sì. Ci attrae ciò che è disponibile in quantità limitata. È il desiderio di ottenere qualcosa, e non il possesso, che ci crea uno stato di eccitazione e benessere ed è per questo che sui volantini troviamo scritto: offerta valida solo…, disponibile per i primi 20 clienti… e così via. Creare il desiderio è ciò che ci fa porre l’attenzione su quel determinato articolo. Con lo stesso principio, alcuni grandi marchi aumentano le vendite dei prodotti: vi siete mai chiesti perché, pur avendone la possibilità e considerando la certezza dell’immensa richiesta, all’uscita del nuovo dispositivo, la Apple ne fornisca una quantità limitata ai rivenditori? Perché così si creano code chilometriche di fronte ai punti vendita per aggiudicarsi il prodotto e tanta pubblicità per il marchio made in Cupertino. A conferma di questo principio, c’è l’esperimento condotto da un team di ricercatori guidati dallo psicologo americano Stephen Worchel. Il gruppo ha domandato ai volontari di giudicare la bontà di alcuni dolcetti, chiedendo di prelevarli da due barattoli: uno pieno e un altro quasi vuoto. Quali erano giudicati più gustosi? Quelli nel barattolo più scarso, anche se i dolcetti erano identici. Tenete a mente questo trucco la prossima volta che andate al ristorante: quando il cameriere vi proporrà il branzino, perché l’ultimo rimasto, probabilmente in cucina ci sarà il frigo pieno.
La cornice fa la differenza
È il framing, cioè la cornice, che fa la differenza tra ciò che attira la nostra attenzione e ciò che ci risulta indifferente. Non ci credete? Andate a vedere il video dell’esperimento pubblicato da The Washington Post: un violinista, vestito come un mendicante, sta suonando in una stazione della metro, con la custodia dello strumento aperta per raccogliere le offerte. Una scena quotidiana, direte; già vista talmente tante volte da non accorgersi che chi sta suonando è l’acclamato violinista Joshua Bell. Normalmente questo artista riempie i teatri con i suoi concerti e in quella stazione della metropolitana sta suonando uno Stradivari. Su centinaia di passanti, meno di 20 si fermano ad ascoltarlo. Colpa della cornice, cioè del contesto. Un altro errore del violinista è quello di mettersi davanti alle porte: grosso sbaglio se si vuole attirare l’attenzione, secondo Parr. Fateci caso: avete mai visto suonatori o poveri che chiedono l’elemosina proprio all’ingresso della metro? Di solito si mettono nei corridoi o direttamente all’interno dei vagoni: le porte sono fatte per entrare e uscire, difficilmente ci si ferma davanti, mentre il corridoio va percorso e c’è più tempo perché arrivi al cervello il messaggio “una persona sta suonando e chiede un’offerta”.
Questione di reputazione
Esistono tre categorie di persone, secondo Parr: figure autorevoli, esperti e gente comune. Se un esponente di una di queste categorie esprimesse un pensiero, chi ci coinvolgerebbe di più? L’esperto, perché, come suggerisce il nome, vanta più esperienza. Una figura autorevole può essere il proprio capo, un presidente, un politico, ma l’esperto è colui che possiede la conoscenza di un determinato argomento e riesce a essere più credibile. È per questo motivo che quando un’agenzia pubblicitaria deve creare uno spot per vendere un dentifricio, delle vitamine e persino pannolini, fa vestire i protagonisti della pubblicità
con camici bianchi: l’abito, in questo caso, fa il monaco. Secondo Robert Cialdini, psicologo statunitense noto per gli studi sulla persuasione, consideriamo credibile chi si presenta come esperto e cattura la nostra attenzione, chi riesce a farci immedesimare e chi è in grado di renderci partecipi e di farci riconoscere in ciò che sta dicendo o facendo: si chiama tecnica del mirror and match, specchiarsi e riconoscersi. Per questo nelle pubblicità le mamme sono sempre vestite in modo sobrio, le nonne hanno abiti semplici e gli uomini vestono casual: ci fanno immedesimare. Con lo stesso principio, i politici che vogliono catturare la nostra attenzione raccontano storie coinvolgenti: è la tecnica usata da personaggi come Margaret Thatcher e Bill Clinton, secondo il professore di psicologia Howard Gardner, e da Barack Obama che, in più, ha usato un’altra tecnica utile: creare slogan, come “yes, we can!”.
Usi le parole giuste?
Secondo Parr, se si vuole coinvolgere qualcuno bisognerebbe cominciare con una domanda, per poi sviluppare il discorso. Poi, se si vuole che gli altri tengano gli occhi puntati su di noi mentre parliamo, bisogna usare un linguaggio figurato. Le parole possono influire sulla percezione: in base a un esperimento citato dall’esperto, a un gruppo di persone è stato mostrato un video con un incidente di auto e chiesto qual era, secondo loro, la velocità dell’auto. Le risposte variavano in base a come era formulata la domanda e cioè in base al termine utilizzato: chiedendo “a che velocità si è schiantata l’auto?” la velocità percepita raddoppiava rispetto a quella ipotizzata da chi rispondeva alla domanda “a che velocità si è impattata?”, e ancora di più rispetto a “a che velocità si è fermata?”. Il responsabile della variazione è sempre il framing: cambiando il contesto (in questo caso la parola), cambia la nostra percezione dell’evento. Oltre alle parole, bisogna ricordare che il 75% di ciò che ci viene presentato viene immagazzinato nel nostro cervello con la vista, il 13 con l’udito e il 12 con altri sensi. Dopo tre giorni, la percentuale di dati immagazzinati che ricordiamo è del 20%. Se abbiamo utilizzato tutti i sensi per catturare l’attenzione di qualcuno, la percentuale sale al 70. Le regole: parlare senza annoiare (iniziando con una battuta, possibilmente autoironica); sorridere (attenzione al finto sorriso, riconoscibile dagli occhi che non mutano espressione); non dimenticare di mantenere le distanze (basta un tocco o un eccesso di vicinanza/ lontananza dall’interlocutore per farci perdere la sua attenzione). E ricordare che la prima impressione è quella che conta.