Sembra un paradosso ma alcune piante, come certe sequoie od orchidee, possono svilupparsi soltanto se avvolte dalle fiamme. Com’è possibile che la potenza distruttiva del fuoco sia un “metodo” di riproduzione?
Si riproducono solo con il fuoco. Sembra un controsenso, ma è la realtà. I botanici chiamano queste piante “pirofite” dall’unione delle parole greche “pyr”, fuoco, e “phyton”, pianta. È per loro che le guardie forestali americane appiccano fuochi intenzionalmente. Nelle foreste californiane dove le sequoie giganti sfiorano il cielo a 80 metri d’altezza, si brucia con il lanciafiamme il sottobosco per stimolare la schiusa delle pigne dei maestosi alberi e la dispersione dei loro semi. È una pratica recente, introdotta da quando ci si è accorti che la lotta perpetuata contro gli incendi boschivi aveva sì preservato interi ecosistemi, ma stava anche in”uenzando il processo di rinnovamento di alcune specie.
Le più forti sopravvivono
Ma come è possibile che il fuoco, con la sua potenza distruttiva, sia per alcune piante un mezzo per farle riprodurre? Il fenomeno è difficile da studiare e ancora denso di aspetti da chiarire, soprattutto se si considera che durante un incendio la temperatura può raggiungere i 500 °C in superficie e ridursi a 50 °C a pochi centimetri di profondità. La risposta sta nella pressione selettiva esercitata dal fuoco che spinge le piante a sviluppare soluzioni ingegnose. Come ha fatto in Africa l’albero del cotone dai fiori rossi che resiste alle fiamme grazie a una corteccia tre volte più spessa del normale e ricoperta da una moltitudine di protuberanze che controllano la distribuzione delle fiamme e del calore sulla superficie del tronco stesso. O come in Australia, dove una piccola orchidea selvatica (Prasophyllum hians) dà prova di grande tenacia grazie a uno speciale organo sotterraneo (fatto come una radice gonfia) capace di sopportare il calore intenso e di generare una nuova piantina a fiamme spente. Le piante che sopravvivono al fuoco crescono dove le probabilità d’incendi naturali sono più elevate: nelle savane, nelle praterie, nelle foreste di conifere e nelle zone a clima mediterraneo sparse per il mondo. I botanici suddividono le specie in base al diverso grado di resistenza alle fiamme. Si va da quelle intolleranti, che bruciano completamente ma che affidano la dispersione dei lori semi agli animali o al vento, a quelle che mostrano un certo grado di tolleranza e sopravvivono grazie a speciali organi sotterranei, come è il caso dell’eucalipto australiano, o grazie a foglie e tronchi resistenti alle fiamme, come è per molte cicadi (Cycas media), le cui foglie non bruciano e proteggono l’apice dal calore. Poi ci sono piante dipendenti dal fuoco, che si riproducono solo dopo un incendio. Senza fuoco le pirofite più estreme scompaiono, così come gli animali che da esse dipendono.
Le orchidee della savana
Il caldo soffocante della lunga stagione secca arde il suolo della savana per sei mesi l’anno. Diverse orchidee (la Centaurea praecox in Africa o la Pyrorchis nigricans in Australia) sono così dipendenti dal fuoco che fioriscono solo dopo il passaggio delle fiamme e poco prima dell’arrivo delle piogge stagionali. Senza fuoco non producono né fiori né frutti e i loro semi non possono essere dispersi. Anche alle nostre latitudini vi sono specie che hanno saputo escogitare sistemi per superare la devastazione del fuoco. Il cisto, un arbusto dai vivacissimi fiori rosa, è considerato una pianta “pioniera” della macchia mediterranea perché è tra le prime a rinascere dopo un incendio. Il fusto legnoso, ricco di resina infiammabile, brucia rapidamente. Ma i semi si disperdono solo dopo che il calore ha reso possibile l’apertura della capsula ignifuga in cui sono custoditi. Nel Sud dell’Australia, gli alberelli chiamati banksia liberano i semi solo se stimolati dal fuoco. I loro frutti coriacei sono racchiusi in un cono molto resistente; il calore delle fiamme lo fa aprire permettendo ai semi di cadere a terra e di sprofondare nella fertile cenere generata dalla combustione della stessa pianta.
I batteri che vivono a 112 gradi
Le molecole organiche come il Dna e la clorofilla (quella della fotosintesi) funzionano male oltre i 40 °C e si decompongono a circa 70 °C: oltre questa temperatura la vita è impossibile. Ci sono però delle eccezioni come i batteri capaci di vivere nelle sorgenti idrotermali del Parco nazionale di Yellowstone, oltre i 65 °C, e il Pyrolobus fumarii, un batterio che vive nell’Oceano Atlantico a 3.600 metri di profondità e a una temperatura che raggiunge i 112 °C.
E dalla cenere risorgerannofi
La cenere di origine vegetale è incredibilmente ricca di sali minerali. In particolare è costituita da ossido di calcio, di potassio, di sodio, di magnesio, di ferro e di manganese. Vi sono presenti anche fosfati, sulfati e silicati, oltre a un certo numero di oligoelementi. In pratica tutti gli elementi minerali dei tessuti vegetali inceneriti finiscono nel terreno. Una grande ricchezza a disposizione delle nuove piantine, senza considerare che la coltre di cenere protegge i semi dalla disidratazione e dagli animali. Le qualità della cenere erano note già in antichità. In epoca romana si mescolava la cenere a fango, sterco e avanzi per ottenere eccellenti fertilizzanti. Un’altra pratica molto antica è quella dell’addebbiatura (o del debbio) dei campi per ringiovanirne la fertilità. In pratica si bruciano le erbe secche dopo i raccolti e così oltre a eliminare i resti vegetali e le larve di parassiti infestanti, si arricchisce il terreno con la cenere.
Come si forma il fuoco?
Il fuoco è il risultato di una reazione chimica che si svolge a una data temperatura tra l’ossigeno e un combustibile. Dalla combustione si ottengono calore, luce e residui sotto forma di gas e ceneri. Le fiamme sono la parte visibile del fuoco. Il loro colore varia in funzione della temperatura e delle sostanze coinvolte nella combustione. Così se la fiamma è rossa ha una temperatura che oscilla tra i 500 e i 900 °C, se arancione tra i 900 e 1.100 °C, se è tendente all’azzurro raggiunge i 1.400 °C. La fiamma di una candela ha una temperatura di 1.000 °C, la fiamma ossidrica di 2.000 °C, quella di una sigaretta arriva sino ai 700 °C, quando si aspira intensamente. In base agli elementi chimici coinvolti nella combustione la fiamma assume colori diversi: giallo se vi è molto sodio, rosso scuro per il calcio, lilla per il potassio e verde-azzurro per il rame.