Gli ultimi giorni del padre della psicoanalisi a Vienna dopo l’annessione alla Germania di Hitler. Fu tra gli ultimi a decidere di fuggire e ancora non sono chiare le ragioni: perché fu così lento ad andarsene e perché decise di non salvare le sue sorelle?
Alle 2,45 di notte del 4 giugno 1938 il treno Orient Express, proveniente da Vienna e diretto a Parigi, si fermò per l’ultima volta in territorio tedesco. Gli ufficiali nazisti ispezionarono le carrozze alla ricerca di ebrei in fuga. Quando si fermarono davanti a un vecchio stanco e provato, con una barbetta bianca che gli incorniciava il volto scavato, esaminarono con cura i suoi documenti: era ebreo, ma la sua autorizzazione all’espatrio era indubbiamente valida. I nazisti se ne andarono e Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, poté brindare allo scampato pericolo con un Vermouth in compagnia della moglie, della figlia e della governante.
Era anziano e malato
Freud viveva da molti anni a Vienna. Aveva 82 anni e da oltre sedici soffriva di un tumore alla mandibola, cosa che non gli impediva di fumare un’intera scatola di sigari al giorno.
Il 12 marzo 1938 la Germania di Hitler aveva invaso l’Austria con il cosiddetto Anschluss, l’annessione del paese dopo un lungo periodo di pressioni e di ingerenze di Berlino nella vita e nella politica austriache. Una delle conseguenze immediate fu che le leggi razziali antiebraiche vennero estese anche a Vienna. Di punto in bianco i 182mila ebrei residenti in Austria (ma 167mila erano concentrati nella capitale, di cui rappresentavano quasi il 10 per cento della popolazione) si trovarono esposti a ogni vessazione. In particolare, dovettero sottostare alla norma che puniva con la morte il fatto di possedere moneta all’estero: per principio il guadagno di un ebreo era considerato illegale e trasferire all’estero fondi era equiparato a sottrarli al legittimo proprietario, cioè lo stato.
La psicoanalisi era stata condannata da Hitler fin dal 1933 perché “scienza ebraica”: i libri di Freud erano stati bruciati pubblicamente sulla Opernplatz (oggi Bebelplatz) a Berlino.
Subito dopo l’Anschluss, la casa di Freud al numero 19 della centrale via Berggasse venne visitata da squadracce naziste. Il padre della psicoanalisi riuscì ad allontanarli solo versando loro la ragguardevole cifra di 6mila schilling in contanti. Cosa molto più grave, vennero sequestrati i passaporti di tutta la famiglia, rendendo impossibile la fuga all’estero. Inoltre, il figlio Martin, andato nello studio del padre a distruggere alcuni documenti compromettenti (dimostravano che i Freud avevano trasferito ingenti somme all’estero), era stato attaccato dai nazisti, che gli avevano puntato la pistola alla tempia: si era salvato per un pelo. In realtà molti ebrei viennesi erano già scappati all’estero, mentre Freud si era attardato: perché?
Guardato a vista
La prima e più semplice spiegazione è che Freud non avesse compreso fino in fondo il pericolo nazista e quindi fosse rimasto spiazzato dalla violenza che si sprigionò dopo l’Anschluss. Era poi vecchio e malato: dopo molte operazioni per fermare il cancro, aveva subito una parziale asportazione della mascella.
Tuttavia, studi recenti sull’ultimo periodo della sua permanenza a Vienna permettono di ricostruire in modo più accurato questa fase della sua vita. I nazisti posero subito come guardiano di Freud e famiglia un nazista di provata fede: Anton Sauerwald, un chimico 42enne che si dedicava a tempo perso alla fabbricazione di bombe e che inizialmente accettò con entusiasmo l’incarico. Sauerwald era un tipo preciso e cominciò subito a raccogliere un voluminoso dossier sui suoi sorvegliati. Egli era spinto da un sincero odio verso gli ebrei e non ci mise molto ad accorgersi che Freud, attraverso una piccola casa editrice di sua proprietà, aveva fatto fuoriuscire una cifra considerevole, tra i due e i tre milioni di shilling: evidentemente Martin Freud, quando si era recato negli uffici del padre, non era riuscito a distruggere tutte le prove di un crimine che sarebbe bastato, da solo, a deciderne la sorte.
Tuttavia qualcosa si inceppò, per fortuna di Freud. La Gestapo non aveva controllato con cura il curriculum di Sauerwald o forse aveva sottovalutato il fatto che il chimico, all’università di Vienna, era stato il più brillante allievo di Josef Herzig, a sua volta intimo amico di Freud. Evidentemente l’ideologia nazista non aveva del tutto ottenebrato la mente di Sauerwald, che invece di procedere sbrigativamente ad arrestare Freud e i suoi cominciò a leggerne i libri (nel frattempo proibiti anche in Austria). E qui l’atteggiamento del kapò nazista verso il vecchio medico cambiò completamente.
Dopo la guerra, Sauerwald, arrestato per l’insistenza di un nipote di Freud, ufficiale dell’esercito americano, spiegò la sua trasformazione dicendo che si era reso conto che Freud era «in una condizione emotiva fragile» e che aveva deciso di tranquillizzarlo risparmiandogli ulteriori shock. Trasferì tutti i documenti compromettenti a casa sua e li chiuse in una cassaforte: se si fosse presentata la Gestapo, dichiarò, si sarebbe giustificato dicendo che doveva studiarli con maggiore attenzione.
Un aiuto provvidenziale
Tuttavia il ravvedimento di Sauerwald non sarebbe bastato a salvare i Freud, che erano sempre bloccati in Austria, senza passaporti e senza soldi. Fu decisivo l’intervento di una principessa, Maria Bonaparte, pronipote di Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone.
Maria era non solo una paziente di Freud, che la curava per la sua conclamata frigidità sessuale, ma era anche una studiosa di psicoanalisi. Era ricchissima, avendo ereditato la fortuna dei nonni che erano concessionari del Casinò di Montecarlo. Fu da questa ricchezza quasi illimitata che arrivarono i fondi necessari a convincere gli ufficiali nazisti a concedere un visto di uscita per Sigmund Freud e per le persone che lui avrebbe indicato, anche grazie all’intervento del presidente della Società internazionale di psicoanalisi, l’inglese Ernest Jones. Maria fu costretta a impegnarsi a fondo per riuscire nel compito che si era prefissata, recandosi più volte a Vienna e arrivando perfino a montare di persona la guardia all’appartamento dei Freud. Ma c’era ancora un ostacolo alla partenza di Freud: la sua amatissima figlia Anna, anch’ella studiosa di psicoanalisi, era stata arrestata dai nazisti.
Solo quando Anna venne liberata Freud accettò di partire e preparò la lista di quelli che sarebbero potuti salvarsi con lui: la moglie, la cognata, la figlia Anna, l’altra figlia Mathilde e Martin, il figlio maschio, con i relativi consorti e figli. Inoltre Freud pretese di portare con sé il medico personale e la sua famiglia e infine le cameriere. In tutto diciassette persone; stranamente, lo studioso non incluse nell’elenco le sue quattro sorelle, di fatto condannandole a morte (vennero tutte internate nei campi di concentramento, dove spirarono tra il 1942 e il 1943). Pochi giorni dopo, il 4 giugno 1938 i Freud attraversarono la frontiera e furono salvi.
Perché Freud voleva rimanere
La vita di Freud è piena di misteri. La scrittrice francese Eliette Abecassis nel suo recentissimo lavoro, Un secret du docteur Freud, ha ipotizzato che abbia ritardato la sua partenza da Vienna per recuperare un carteggio giovanile con il dottor Wilhelm Fliess. Ciò avrebbe provato la malafede di fondo di Freud nell’impostazione della teoria psicanalitica e addirittura una sua tendenza bisessuale. Secondo lo studioso Jeffery Masson, in effetti, la versione ufficiale di queste lettere è stata purgata di una serie di passaggi chiave che inchioderebbero Freud. Le tesi di Masson, tuttavia, sono violentamente contestate dalla comunità
scientifica.
Sigmund Freud in 7 date
.1856 Nasce a Freiberg (oggi Pribor nella Repubblica ceca)
. 1881 Si laurea in medicina
. 1885 Inizia a studiare l’isteria e si reca a Parigi
. 1900 Pubblica L’interpretazione dei sogni, opera capitale della psicoanalisi
. 1910 Fonda il Movimento internazionale di psicoanalisi ed entra in amicizia con Carl Jung
. 1914 Rompe con Jung
. 1939 Muore
Non era religioso. Era “attratto” dagli ebrei
«Posso dire di sentirmi lontano dalla religione ebraica come da tutte le religioni. Per contro ho sempre avuto molto forte il senso di appartenenza al mio popolo, che ho cercato di coltivare anche nei miei figli. (…) Ciò che mi legava all’ebraismo era (…) non la fede e nemmeno l’orgoglio nazionale (…). Ho sempre cercato di reprimere l’orgoglio nazionale (…). Ma tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile l’attrazione per l’ebraismo e gli ebrei, molte oscure potenze del sentimento».
Ironizzò persino sulla Gestapo
I nazisti avevano concesso a Freud il visto d’uscita dall’Austria ma a condizione che mettesse per iscritto che era stato trattato dalle autorità tedesche e dalla Gestapo (la polizia segreta del Terzo Reich) «con tutto il rispetto dovuto alla fama di scienziato»: un tentativo di sfruttare la fama di Freud per la propaganda nazista. Quando l’ufficiale della Gestapo gli portò i documenti per la firma, Freud chiese di aggiungere un’altra frase. L’ufficiale acconsentì e lui scrisse di suo pugno: «Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chiunque».